IsoleBianche

XIV – Rio Galves: nella selva.

I giorni seguenti ci portano a una maggiore conoscenza della selva e di come sia molto duro il viverci, soprattutto per le difficili condizioni ambientali. Sempre fango e umidità con scarse possibilità di riparo. Ciò che per me e i miei compagni si profila come un incubo nel trascorrere dei giorni, per questi indios è la condizione di vita abituale. Come del resto tutti i nativi, i Matses vivono nella pienezza della natura, subendo le ingiurie delle frequenti piogge torrenziali, del sole cocente che al suo repentino apparire evapora tosto l’umidità dalla terra, della vegetazione gravida d’acqua e della infestante onnipresenza di ogni genere di insetti, alcuni dei quali dalle punture letali. Eppure i Matses hanno sviluppato l’arte di adattarsi a tutto ciò, con tecniche sofisticate per costruirsi ripari di fortuna e utensili e trappole per la caccia, utilizzando quel poco che l’ambiente offre loro.

Armando, Denis, Hermann sono abili cacciatori e con loro vivremo quel ritmo naturale che in un tempo ancestrale apparteneva ai nostri progenitori. Denis caccia con arco e frecce, tecnica che utilizza ancora oggi per la pernice, anche se possiede un fucile. È infatti più pratico, dice, perché la escopeta è pur sempre un fucile rudimentale ad un sol colpo, la cui detonazione spaventa tutti gli animali per un buon raggio intorno, vanificando la caccia di altre eventuali prede. Altri nativi, invece, come i Piaroa dell’Orinoco fanno uso del curaro che ricavano da una corteccia e col quale ne intridono le frecce. Questo potente veleno agisce sulla muscolatura paralizzando la preda che alla fine perisce per soffocamento. Ma è efficace soltanto con animali di piccola taglia perché non penetra a sufficienza nei tessuti adiposi. Da quel che ci è dato vedere, non è una tecnica in uso tra i Matses. 

Armando arma invece una trappola ingegnosa per catturare il tapiro, uno dei più grossi mammiferi amazzonici, assai schivo e difficile da avvistare, posizionandola lungo il passaggio dell’animale. Per farlo deve prima studiare bene le tracce che indicano il suo percorso abituale. Quindi predispone un congegno utilizzando legni forgiati all’istante col machete e legati insieme con liane. I legni appuntiti si conficcheranno nel corpo della preda ignara, scattando mediante un sistema di leve mimetizzate nella vegetazione. Mi rendo conto che ognuno di noi, avrebbe potuto fare la medesima fine, perché non saremmo mai stati capaci di distinguere qualcosa in quel groviglio se Armando non avesse richiamato la nostra attenzione.

Il machete lo usano per qualunque cosa, mentre un tempo, racconta Armando, quando ancora vivevano nudi e non avevano contatti con l’uomo bianco, impiegavano in sua vece i denti affilati dell’aguti per limare il legno e forgiare attrezzi. Le asce invece erano fatte con alcune pietre che andavano a raccogliere nella lontana Sierra del Divisor, distante 200 km circa. Ora il machete è l’attrezzo per eccellenza, insostituibile e indispensabile al punto di essere uno strumento di sopravvivenza.

Camminare dietro le nostre guide ci svela le tracce a noi invisibili nel caos di fango e foglie, cattura l’udito all’imitazione delle infinite modulazioni del vasto campionario di richiami di uccelli, tapiri, aguti, giaguari, scimmie. Ma noi non saremmo mai in grado di vedere anche di notte e distinguere nel folto della vegetazione, assolutamente impenetrabile e indecifrabile, la sottile presenza di animali, uccelli e rane microscopiche, non più grandi di un centimetro, e riconoscere la moltitudine di piante e fiori da utilizzare secondo necessità. In questo la vita dei Matses non è per nulla mutata, nel ripetere il rituale della sopravvivenza di sempre. Eppure, per quanto ancora?

Mi dice Hector che tutti i giovani vogliono andare a vivere in città, tentare la fortuna di una vita diversa. Per loro il miraggio è Iquitos, un altro tipo di selva, assai duro e difficile. La foresta è piena di pericoli e rischi, è vero, eppure offre quello di cui chi ha imparato le dure leggi dell’adattamento può procurarsi alla bisogna, nella piena consapevole libertà di essere, nella basilare e complessa essenzialità dove il superfluo semplicemente non esiste, nemmeno come vocabolo.

 

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