IsoleBianche

La California dei Piani Eterni

Non conoscevo le montagne che s’affacciano sopra Belluno. Una muraglia di erte cime a chiudere l’orizzonte tra le nubi di calore di questa estate torrida. Tantomeno, ignoravo l’azzurro intenso del Lago del Mis, una promessa di frescura che s’allarga nell’omonima valle stretta tra ripide sponde boschive, dov’è difficile immaginare un passaggio, figuriamoci qualche casa o, addirittura, un qualche villaggio. Lo scrittore Dino Buzzati, originario di queste parti, diceva che soltanto un pazzo poteva avere l’idea di infilarsi in queste valli misteriose e severe, magari ogni trecento anni.

Ma in una fresca serata di inizio giugno, proprio sulle sponde del Lago del Mis, in occasione della II Réunion di Altitudini, qualcuno ha cominciato a parlare di California e di Piani Eterni come tra i luoghi più suggestivi, un tempo abitati da boscaioli e minatori tenaci, genti dure e taciturne, territori impervi battuti da cacciatori di camosci. I racconti degli eccidi di Gena, durante l’ultima guerra, un pugno di case a picco sul lago, e sull’alluvione del 1966, hanno poi alimentato la mia curiosità. Nemmeno una trentina di giorni più tardi mi trovo proprio qui, con l’amico Diego, a California, da dove inizierà la nostra esplorazione.

Oltrepassato il bivio per Gena, la carrozzabile si fa sempre più angusta con gallerie che paiono scavate a picconate nella roccia, l’ingresso di miniere dove passa un’auto per volta, adagio. Non ci sono case né villaggi, ma lo sguardo è attratto dal canyon sulla sinistra, una fessura tra pareti rocciose e precipiti. Scorci che tosto diventano memoria, una sensazione che coglie il senso del luogo. Sono i racconti su Gena che mi porto dentro, pietre sgretolate dal tempo e dall’abbandono, memorie di case vuote dove la storia è passata col suo strascico di tragedie; sembra tutto così lontano, come le fotografie sbiadite dei giustiziati dalle SS raccolte in una maestà votiva, eppure così luminoso, presente. Alcuni ritornano, infatti, gli eredi del passato, e a poco a poco, qua e là, i muri si raddrizzano, le finestre riaprono gli scuri, i balconi si affacciano di fiori, le voci allietano i vicoletti di ortiche, rosmarino, erica.

Poi, la memoria si fa tangibile in una targa inchiodata a una roccia, laddove la strada sterrata finisce in uno slargo, il bivio tra California e Pattine, dove ci lascia Sara, la moglie di Diego. L’auto se ne riparte subito dopo i saluti, tra quattro giorni Sara ci riprenderà a Croce d’Aune. Ora, lo scroscio del torrente è una promessa d’avventura, come quest’aria limpida, il colore intenso degli abeti e questo nome che mi ripeto in una cantilena, California, la bizzarria di un emigrante ritornato dall’America e l’illusione di oro tra le sabbie del torrente Gosalda.

Proprio qui, nell’Ottocento era un’osteria frequentata dai minatori e dai boscaioli.

Me l’immagino, un saloon da far west, tra fango, pietrame, l’odore di resina degli alberi tagliati. E i buchi che traforano la montagna, nastri trasportatori che spostano pietre, carrelli, forni fusori utilizzati per la distillazione in loco del mercurio dalle rocce estratte sulla costa di Vallalta. Leggo di un prototipo “forno di Vallalta”, famoso nella storia della metallurgia.

Quel che vedo oggi sono boschi fitti in un silenzio profondo. La Natura si è ripresa ciò che l’Uomo le aveva strappato con la sua caparbia e cieca fame di terra, tra velleità e sogni di riscatto dalla miseria.

Non possiamo biasimarli, all’epoca erano poveracci che si dibattevano in una vita infernale di fatiche, senza alcun sollievo, al freddo, nell’umidità ghiaccia del fango, con indumenti zuppi di sudore, panni intrisi di sporcizia. Erano come formiche che si arrampicavano per gli erti pendii, spaccavano pietre, minavano rocce, scavavano tunnel, disboscavano, sradicavano, cavavano l’anima dei luoghi e sputavano la propria. Respiravano mercurio e i vapori di zolfo, non l’aria leggera che respiro io, oggi. Eppure, anche allora, subito dopo la guerra, quando le miniere andavano esaurendosi, l’osteria di California si trasformò in alberghetto e divenne richiamo di turisti.

C’erano case, e perfino una chiesa per il conforto delle famiglie dei minatori. Gli introiti del turismo sostituirono velocemente l’oro nero delle miniere. Dicono che nel 1954 era stata accesa la prima televisione della zona, richiamo irresistibile anche per chi abitava più a valle. Poi l’albergo divenne anche sala da ballo, con un certo via vai di giovani. Non so immaginarmi il paesaggio, né il richiamo che potesse avere, così brullo, devastato; ho visto una fotografia della California, l’osteria diventata albergo; impensabile oggi come attrazione turistica. Eppure, lo fu; finché la Natura non si riprese ciò che le avevano tolto gli uomini, così ciechi e folli.

Il 4 novembre 1966, dice la targa sul sasso, l’alluvione spazzò via i sogni, distrusse le case in un marasma di ghiaia e tronchi e fango trascinati dalla violenza del Gosaldo e del Mis fin giù a valle, una massa d’acqua sparata nelle strettoie del canyon, inarrestabile. Non ci furono vittime, così la tragedia fu offuscata da quella più grande del Vajont, ma questi luoghi caddero rapidamente nell’oblio.

Ho negli occhi le mura devastate, i buchi al posto delle finestre, la sterpaglia e i rovi a ghermire le soglie di Pattine. Ma il sentiero sale inesorabile nella coltre fitta dei faggi che chiudono la vista. Per certi versi, questo tratto mi ricorda il mio Appennino, il bosco, il tappeto di foglie secche ramate, questa secchezza del suolo per la siccità prolungata. Poi la prima casera, in una soleggiata radura di erbe alte. Ovunque un tripudio di fiori e di alacri rombi e api infaticabili, e poi quei lampi di colore delle farfalle quando svolazzano di qua e di là. La calura del pomeriggio si fa sentire ed è inutile sperare che più su il fresco ristori. Ci troviamo ancora nella lunga valle di Campotorondo e debbo pensare ad armenti al pascolo, un tempo, prima che gli alberi tornassero. Quel che vedo è la magia di quel che la Natura si riprende e fa a modo suo, se la lasciamo in pace.

I Piani Eterni si estendono in una conca orlata di brulli rilievi di rocce bianche, striate. A est il Monte Mondo, a nord il Brandol sono cime tozze di erba rada; a Sud il Colsent e la cuspide rocciosa del Pizzocco. Invano scruto le sponde in cerca di qualche camoscio. Mi avevano detto che ne avrei trovati a branchi interi, invece nulla! Sono un po’ deluso, ma poi mi riprendo; lo so che non posso pretendere animali selvatici a disposizione, già in posa per qualche scatto. Intemperanze da cittadino. Vedo, piuttosto, vacche al pascolo e anche cavalli sparpagliati per l’ampia conca, un alpeggio che in altri tempi avrebbe ospitato ben più armenti. Sono così tranquilli che non penseresti mai la presenza del lupo. Se ne duole, invece, Novella la malgara di Malga Errera, un caseificio a 1700 metri di altezza, dove ci rifugeremo per la notte. Dice di avere visto un lupo solitario aggirarsi per la malga, nemmeno una settimana fa, e dà la colpa a lui se camosci e cervi sono spariti dalla circolazione. “Dove arriva il lupo, tutti gli altri animali fuggono via” sentenzia, e aggiunge, forse ad assecondare le mie perplessità di cittadino naturalista: “ma anche lui ha il diritto di esistere…”

Già, vero! Non nascondo di simpatizzare per il lupo, darei non so che per trovarmi faccia a faccia. Ma lui è da qualche parte qui intorno e mi starà osservando con aria di sufficienza, così mi piace pensarlo, mentre alcune marmotte impettite sulle loro zampette hanno preso a fischiare senza sosta. È perché le vacche stanno per invadere il loro territorio e calpestare gli ingressi delle tane! Intanto, col binocolo scorgo un mezzo camoscio molto in alto, verso il Passo dell’Omo; mezzo perché ne distinguo bene soltanto la testa con le piccole corna sbucare dall’erba alta. Osserva, immobile, da quella posizione privilegiata, magari anche lui a cercare l’ombra del lupo per starne alla larga.

Ecco, che dirvi…, non è che questo sia un luogo spettacolare, come siamo soliti immaginare le Dolomiti; oggi, poi, non aiuta nemmeno il tramonto, ingolfato in una coltre di densa foschia. D’altronde non ci sono rocce che si accenderebbero di rosso. Questo è, piuttosto, un luogo altro, magico, che ti cattura coi suoi silenzi e l’atmosfera rarefatta di un mondo sospeso tra il passato e l’oggi. L’odore di latte munto, le forme di formaggio e ricotta sopra le scansie, l’odore dei biscotti appena sfornati dalla signora Novella, quella semplicità di piccole cose, ruvide, vere, fatte di pietra e di legno, di saggezza nel costruire gli ambienti, una suddivisione degli spazi funzionale al viverci e al lavoro.

Sorrido quando scopro i cosiddetti “servizi” confinati in un casotto un po’ distante dalla casera, ma limitrofa alla porcilaia; il cartello con su scritto “cagadora” non lascia equivoci. Osservo il tetto a scandole. Quale lavoro, abile, certosino, di coibentazione perfetta e lo immagino reggere la neve, scioglierla da sotto col suo tepore di legno, a poco a poco. Avrebbe bisogno di una sistemata, ma chi saprà farlo? Più facile sostituirlo con lamiere o, se va bene, con i classici coppi!

E, ancora, che dirvi…, parole appena sussurrate, mai una di troppo, che dicono la paura di quell’oltre che si nasconde nella foresta, ombrosa sul confine a sud. Come se potesse sbucare, da un momento all’altro, chissà quale pericolo o l’orco delle favole, ed invece è solo ombra e mistero; un Deserto dei Tartari fatto di paziente attesa.

“Avete sentito ululare i lupi, stanotte? Erano almeno due, qui vicino, c’era la luna piena…” fa la signora Novella nel salutarci. Forse, non vuole deludermi, ma io non ho udito nulla, dormivo tramortito dal silenzio.

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