IsoleBianche

II – Iquitos, il tempo dell’attesa.

Il tempo è un buon giudice, si dice. Valuta gli accadimenti da più angolazioni e li giudica per quello che sono, con maggior obiettività, libero dai condizionamenti degli stati d’animo. Con il trascorrere degli anni le emozioni decantano in un sedimento di sobria compostezza dove perfino la rabbia e il rancore dei sopravvissuti a violenze e soprusi si cicatrizzano nella condiscendenza anestetica della quotidianità. Ciò è tanto più vero a mano a mano che ci allontaniamo dagli eventi e quando arriviamo a perdere la memoria viva dei diretti protagonisti e dei loro discendenti prossimi.

È per questo che dobbiamo tributare ogni sforzo alla memoria. Celebrarla nei rituali sacri della liturgia laica.
Mi viene da riflettere sul Tempo e sulla Storia, del loro lascito.
È altrettanto vero che noi uomini non teniamo conto dei misfatti compiuti, ma con regolarità perpetriamo l’esercizio della violenza e del sopruso. Altrimenti ci daremmo da fare per correggere i nostri difetti. Qualche passo è stato fatto sulla via della redenzione, ma le guerre pur seguitano a imperversare ovunque, sempre meno dichiarate e sempre più cercate e provocate subdolamente. Eppure, anche i crimini più spietati si disciolgono nella panacea del tempo, delle fotografie seppiate, dei racconti e delle testimonianze trasformate in leggende. E anche i carnefici peggiori, spesso diventano mito.

E’ solo questione di tempo…

Mi viene da riflettere su tutto questo, appunto, davanti alle fotografie sbiadite appese alle pareti della piccola biblioteca comunale di Iquitos. Ritraggono questa cittadina quando ancora si affacciava al futuro con gioviale fiducia. Quando ancora le si aprivano le prospettive di benessere e ricchezza che lo sfruttamento del caucciù, ancora agli inizi, facevano presagire. La costruzione della banchina del porto fluviale, il postale che solcava le acque del gran Rio delle Amazzoni, le chiatte con le balle di caucciù; e poi il trenino a scartamento ridotto che collegava la Plaza 28 Julio ai quartieri della nascente cittadina, più per vanagloria di progresso che per effettiva necessità. Le strade ancora fangose alle piogge torrenziali, le parate militari dei soldati impettiti nell’insediamento della guarnigione, testimonianza di uno Stato appena creato che cercava di presidiare l’ultima frontiera.

E poi, una sfilata di indios Iquitos, gli unici veri legittimi abitanti della regione, nudi, straniti, adorni di qualche piuma, destinati a lasciare a loro memoria soltanto il nome alla città.

 

 

 

 

 

È una mattina uggiosa e le spesse nubi che ristagnano in una coltre vaporosa lasciano cadere qualche scroscio d’acqua di tanto in tanto. Fuori della porta d’ingresso, aperta sulla Calle Arica, le motocarrozzette instancabili s’affannano su e giù in una laboriosità inarrestabile, la stessa che forse impersonavano gli avi alla conquista della selva. La direttrice della biblioteca è sorpresa del mio interesse per le fotografie sbiadite e per i pochi libri polverosi che parlano del tempo che fu e si prodiga a mostrarmi ogni cosa con l’aiuto di un’inserviente sordomuta.

Sfoglio riproduzioni di antiche mappe, cercando di farmi un’idea presente di questo passato remoto del secolo scorso, nel tentativo di restituire all’afonia dei documenti la voce viva di nuove emozioni, quella delle mie emozioni. Ai miei occhi si animano queste figure di uomini, donne, bambini sospese nel prodigio artificioso del tempo immortalato nelle immagini, istanti sottratti alla degenerazione, alle sofferenze della carne e della mente. E per questo momento sembrano rivivere al mio diletto di incorreggibile romantico, ben consapevole, nonostante tutto, che gli istanti così ritratti nella cornice seppiata non potevano e non possono però celare crudeltà e soprusi e nemmeno la carneficina di almeno quarantamila morti ammazzati di stenti, di flagellazioni, di sommarie esecuzioni. Le fotografie sono asettiche per loro natura come i documenti che leggo, purificati da ogni fatica, mondati di sangue e di sudore.

Perché l’epopea del caucciù, che ci piace leggere col fascino della grande avventura, fu esperienza infame, indicibile dolore per i più; per tutti coloro, cioè, che la selva vissero come schiavi incatenati al lavoro duro di estrarre resina bianca dagli alberi della gomma.

Il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento fu infatti l’epoca d’oro dell’estrazione del caucciù, durante il quale si consolidò un sentimento di forte eurocentrismo e si costruì, parimenti, un immaginario collettivo ostile agli indios, così diversi e scandalosamente ignudi, tale da giustificare alle coscienze di cittadini portatori di civiltà il perpetrarsi di crudeli soprusi e spietatezze. In fondo gli indios erano quanto più simili agli animali, del tutto incomprensibili e selvaggi, privi di leggi e di ordine sociale e, cosa più grave di tutte, senza un Dio credibile. Dovevano essere perciò salvati dalle tenebre del peccato e della fornicazione. Non è ammissibile la nudità, nemmeno tollerabile ogni promiscuità. La redenzione passa perciò attraverso la vestizione di miseri stracci che mortificano la fierezza impudica del corpo nudo, innocente di ogni malizia, ignara del senso stesso del peccato.
La religiosità della selva è superstizione che l’Inquisizione ha debellato con il rogo e l’Illuminismo ha combattuto con la Ragione. Gli europei di quel tempo sono come il Dio Assoluto che pretendono di esportare e imporre, tutto analizzando e giudicando con la superba intolleranza che viene dalla fede incrollabile nella scienza e dal potere crescente della tecnologia. Questa universale verità si è costruita sulla forza del colonialismo, perché nessun potere antagonista fu mai in grado di contrastarla efficacemente.

Che cosa rimane, oggi, di quei popoli? Qual è il retaggio del colonialismo? Che fine hanno fatto i protagonisti di quell’epopea così fascinosa?

Sono alcune delle tante domande che affiorano, a scorrere questi documenti, e si delineano in un progetto che dà senso al mio essere qui, in questa biblioteca polverosa e scalcinata, ben misero baluardo contro l’indifferenza che appena al di là della porta induce gli uomini a vivere il giorno senza tanti perché e percome, nell’ignoranza della propria Storia. Ben altro hanno da fare per sopravvivere! E, del resto, generazioni di migranti scampati alle guerre del Novecento sono qui approdate come in un porto sicuro, ognuna portatrice di valori, credenze, tradizioni, linguaggi e idee che nulla hanno a che vedere con il sentimento della selva, con la conoscenza dei nativi.

Quell’anziano seduto a leggere un libro a prestito, per esempio, sarà mai un discendente di quei meticci che hanno vissuto l’ultima frontiera? O sarà un migrante che qui è giunto dalla costa del Pacifico o dagli altipiani andini in cerca di fortuna? Il suo volto bruciato con il naso adunco e gli occhi infossati sembra tradire incroci di razza e una vita certamente dura di manovalanza. E quella signora che parla con la direttrice? Di età indefinibile, grassoccia e un poco claudicante, con la borsa della spesa ricolma di verdure acquistate al mercato. Occhi dal taglio orientale, zigomi accentuati e una folta capigliatura nera. Probabilmente qualche antenato di sangue indio ancora la lega alla selva che forse ha persino in vergogna di ricordare.

Sulla strada incontro un popolo variegato, multietnico nel quale è difficile riconoscere i fili sempre più esili che ci portano alle origini del tutto. È un esercizio affascinante però, al pari del sovrapporre questi stessi luoghi all’immaginario delle mappe e delle rappresentazioni che così tanto hanno catturato la mia attenzione.
È voler dare un significato al mio bighellonare senza meta, con lo sguardo che cade qua e là senza particolare attenzione, nel quale riconoscermi sempre più parte di un tutto sovrastante e onnivoro dov’è facile perdere la propria identità. Cosicché questa attesa del volo militare per Colonia Angamos, ultimo avamposto del Perù sul Rio Javarì, si va riempiendo delle domande e delle titubanze su cosa troverò tra i Matsés, il cosiddetto popolo degli Uomini Giaguaro.
Perché siamo partiti io e l’amico Ugo Antonelli, con tutti i nostri dubbi, le nostre perplessità, soprattutto dopo un’assenza dall’Amazzonia che, per quel che mi riguarda, si protrae da oltre trent’anni.
Un lasso di tempo per grandi cambiamenti.
Un lasso di tempo che qui in Amazzonia può significare un’eternità.
Perché i Matsés entrarono finalmente nella Storia il 30 agosto 1969, appena un mese dopo che l’Uomo compì il primo passo sulla Luna.

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