“So you want to try ayahuasca?”
Forse non troverai nessuno per la strada a chiedertelo così esplicitamente, eppure tutti sanno qui a Iquitos che il maggior interesse dei forestieri occidentali, nordamericani per lo più, è appunto quello di sperimentare questa esperienza forte e intrigante.
L’ayahuasca è l’allucinogeno per antonomasia, il potere trascendentale dello spirito sciamanico. Alcuni ristoranti espongono menù calibrati sulla dieta prescritta a chi vuole affrontare il rito, una dieta in bianco piuttosto rigida atta a depurare il corpo da tossine. La dieta consigliata contempla anche l’astensione da rapporti sessuali, fin quasi per una settimana, prima di assumere la droga.
“Are you from?”, mi fa il tizio californiano appena mi rilasso dal viaggio sul confortevole divano nel grazioso ed esotico patio della Casona, il piccolo hotel sulla Carrettera Fitzcarraldo. Il parrocchetto verde imprigionato tra i rametti dell’ibisco, insiste nel suo cicalare assordante, petulante e invadente col suo curiosare sfacciato, senza perdersi niente dell’andirivieni dei turisti. Il tizio insiste con aria complice: “Are you here for ayahuasca, aren’t you?”
L’Amazzonia contempla e racchiude in sé l’onirico, come uno scrigno prezioso. È imprescindibile da esso. È una manifestazione fisica e tangibile dell’inconscio, mi viene da pensare, riflettendo anche sulle mie esperienze vissute anni fa e sulla base di numerose letture fantasiose, fantastiche, allucinate, appunto. E dire che di César Calvo qui a Iquitos si conserva una memoria di facciata, giusto perché il noto scrittore e poeta, defunto a sessantanni appena compiuti, ha qui avuto i suoi natali. Non sono riuscito a trovare un suo libro in vendita e nemmeno alla biblioteca comunale hanno dato mostra di avere disponibile il suo repertorio letterario.
César Calvo Soriano, così indissolubilmente legato alla sua opera più controversa e intrigante: Las tres mitades de Ino Moxo, pubblicato nel 1981. E come avrei potuto resistere a una lettura del genere! Realtà, fantasia, allucinazioni si combinano in un continuo ribaltamento delle prospettive, senza più punti cardinali di riferimento, nemmeno un sopra e un sotto, nemmeno un passato, né un futuro; soltanto l’essenza del presente, un qui ed ora atemporale dove le identità si fanno multiple e parlano a più voci.
Ricordo ben vive ancora le notti sul Rio Madeira, nel navigare attonito della chiatta che trasportava TIR e automezzi pesanti salpata da Manaus alla volta di Rio Branco. La luna piena si allargava in un bagliore crescente a schiacciare l’oscurità della selva silenziosa e i riflessi delle acque lampeggiavano nel mio sognare.
Avevo appeso la mia amaca sotto il pianale di un TIR, tra un semiasse e l’altro, un improvvisato riparo dalla pioggia. La brezza portata dall’andatura della navigazione mi risparmiava dall’assalto di zanzare e mosquitos. Mi ero imbarcato clandestino, con la compiacenza del capitano per una manciata di soles e quella sistemazione fortuita era la migliore che potessi pretendere. Sul mio diario di bordo trovo scritto:
“Sogno di navigare il fiume ed entrare nella musica delle onde con il loro dolce sciacquio, in una notte stellata di lune afone e attonite. Nuvole che si rincorrono nella luce del loro sorriso leggero, come la brezza che porta gli aironi bianchi. Alberi e fantasmi negli occhi oscuri della mente, voci straniere che spiano pensieri fuggenti fanno capolino tra una meraviglia ed una considerazione. Riva, mato, che posso vedere qui correre nel tempo del mio sogno. Ma sarà poi vera questa notte? Rimembranze di facce sconvolte e turbate dalla baraonda di grilli troppo insistenti e di rane in amore. Dove saranno mai jacarè, piranhas, otorongo negri? Lucciole s’aggirano furtive come lumi di un pensiero che perde il filo. Avrà mai fine quella risata di cachaça? Ombre che compaiono ai margini della notte, nella confusione del sogno o della realtà? Minacciose ed anonime emergono da luci lontane che suonano. Voci allegre che ballano nel fango di piogge insistenti. E il cielo, clemente, sorride alla festa. No, anzi, sembra incupirsi indifferente ad umanità ubriache tra sensi intorpiditi, tra lamenti di cane in amore, tra risate che si perdono in solitudini di alcool.”
Ayhuasca, quindi, oggi orfana del suo impareggiabile cantore. Un altro bene di consumo, da sperimentare nella speranza di imboccare la scorciatoia verso l’oblio delle pene dell’anima.
Ino Moxo, nell’idioma amawaka significa Pantera Nera, Otorongo Negro o Preto, a seconda che si stia di qua o di là dal confine del fiume. Fu il ragazzo bianco che dopo una lunga iniziazione al rito acquisì la conoscenza e divenne Ino Moxo, appunto, il condottiero che guidò il popolo d’adozione nella guerra contro i caucheros così da sopravvivere allo sterminio. Anche se oggi ci piace inclinare al mito, il personaggio è realmente esistito. La sua testimonianza diretta fu raccolta dall’antropologo americano F. Bruce Lamb nella lunghissima intervista romanzata “The Wizard of the Upper Amazon” (1971). Perché Ino Moxo, al secolo Manuel Còrdova Rios, scelse, infine, la sua civiltà d’infanzia e fece ritorno a Iquitos, abbandonando la tribù di adozione. E in questa nuova vita si dedicò alla cura degli afflitti ricorrendo alla medicina di cui era diventato il sapiente maestro indiscusso. Poveri e ricchi, potenti e ignoti ricorsero alla sua sapienza per guarire le pene del corpo e dell’anima. Fu allora che Lamb lo conobbe e lo intervistò.
E’ questa una storia affascinante che mi colpì al tempo in cui, sulle memorie di César Calvo, presi a navigare i fiumi dell’Amazzonia ad inseguire quel “miracolo che sta negli occhi che guardano e non in ciò che si guarda”.