Appena a nord di Massaua si dispiegano le saline, a perdita d’occhio. Occupano la penisola di Abdel Kader in direzione di Gurgussum. A volte, i Rashaida, una popolazione nomade che vive prevalentemente lungo le coste sabbiose fino al confine col Sudan, si spingono fin qua. I Rasahida sono un mondo a parte che difficilmente si lascia condizionare dal progresso e continua a vivere seguendo le proprie tradizioni.
Subito dopo essersi insediati a Massaua, i soldati italiani di guarnigione e i primissimi coloni, dovettero fare i conti con queste popolazioni e i molti predoni che assalivano chi si avventurava nell’interno. Ecco, l’avventura coloniale iniziò così, senza un’idea tanto precisa di cosa farci di questo lembo di terra, a parte incrementare la produzione di salgemma, l’unica materia prima disponibile. Asmara nemmeno esisteva come città, era un semplice villaggio di tucul, ma il confine dell’altipiano che si eleva ad ovest apparve subito come un miraggio e una meta per sfuggire al caldo afoso e opprimente di Massaua. Forse fu proprio questo il vero motivo della penetrazione nell’Abissinia; nonché l’illusione di chissà quali ricchezze celasse il regno di Salomone.
Oggi, in circa due ore d’auto si salgono i 2335 metri di dislivello per la strada tortuosa costruita negli anni trenta del novecento fino ad Asmara. La più antica via carovaniera s’inerpicava, invece, partendo da Adulis, una sessantina di chilometri più a sud di Massaua, per i ripidi contrafforti dell’acrocoro superando strapiombi, cenge, e strette valli fino a raggiungere il brullo altipiano dove sorgeva Kohaito. E da qui proseguiva fino ad Axum, nel cuore dell’Abissinia, la mitica capitale di una misteriosa civiltà che fiorì nel IV secolo D.C.
L’accesso al mare è sempre stato il problema cruciale per i regni dell’Abissinia, causa delle continue lotte tribali tra i popoli dell’interno e quelli della costa. Lo era anche quando gli italiani s’impadronirono di Massaua, l’unico porto del Mar Rosso. Questa strada non è, quindi, lunga per i chilometri in sé, non più di 120, ma lo è per la storia che l’ha costruita e plasmata. La via di penetrazione per impadronirsi dell’Etiopia.
“Sabbie, sabbie, dappertutto sabbie che scottano e abbacinano; e per le sabbie qualche solo arbusto di calotropia dalle grosse bacche ovate, verdi, con riflessi celestognoli…” Così descrive Ferdinando Martini (il primo governatore della colonia Eritrea) l’approssimarsi a Dogali, un paesaggio di colline aride e brulle.
L’alba del 26 gennaio 1887, appena due anni dopo la presa di Massaua, il contingente di 548 uomini (per lo più composto dalle truppe indigene di ascari) capitanati dal Tenente Colonnello Tommaso De Cristoforis s’inoltrò in questo territorio per soccorrere l’avamposto di Saati, sito a 28 km dalla costa, che il giorno prima era stato assediato dai guerrieri di Ras Alula, uno dei più fedeli feudatari del Negus Yohannes IV, Imperatore d’Etiopia.
Dopo avere risalito il torrente in secca Desset, la via carovaniera più agevole per accedere ai territori dell’interno, la colonna di De Cristoforis fu circondata da circa settemila guerrieri che si erano appostati in agguato sfruttando i naturali nascondigli del terreno accidentato. I soldati, nel vano tentativo di resistere all’attacco, si ritirarono sul colle dove furono praticamente sterminati e dove ora sorge il cippo commemorativo della battaglia.
Il ponte che ora supera il torrente Desset fu costruito nel 1935, ma le carovane di mandriani ancora percorrono il greto largo e secco del torrente. La tappa al cippo commemorativo è poco oltre; si parcheggia in uno slargo di un tornante e la collinetta è subito lì, del tutto simile a tutte quelle intorno, se non fosse per il monumento con la bandiera che sventola alla brezza. Dall’epoca della battaglia credo sia mutato ben poco. Ovunque le colline, a perdita d’occhio, e le montagne dell’altipiano a ovest. Dopo qualche chilometro ecco il fortino di Saati, un terrapieno del medesimo colore della terra rossastra circondato da arbusti e sparute acacie spinose.
La notizia dell’eccidio ebbe una grande risonanza in patria e sebbene dovuto più ad imperizia e faciloneria dei comandi che atto di eroismo, determinò nell’opinione pubblica quella spinta emotiva, quel senso di rivalsa e vendetta che diede lo sprone all’avventura coloniale, finora vista con grande scetticismo e poco interesse. I cinquecento di Dogali, del tutto impropriamente, furono paragonati agli eroi delle Termopili e in ogni città italiana venne eretto un monumento. La piazza dove s’affaccia la stazione Termini a Roma commemora, appunto, questi caduti
Proseguendo, la strada continua in piano, a tratti costeggiando la vecchia ferrovia con le traversine in ferro, color ruggine. È un peccato che sia in disuso, ma danno molto l’idea da Far West questi binari arrugginiti che sembrano svoltare nel nulla.
E da questo nulla capita d’incontrare qualcheduno che da solo o in piccoli gruppi cammina alla volta di Massaua, sventolando la bandiera eritrea. Sono veterani e giovani che da ogni parte del paese qui vengono in una sorta di pellegrinaggio laico per commemorare il XXXIV anniversario della liberazione della città dall’occupazione etiopica.
Mi viene così da pensare ai corsi e ricorsi della Storia, un continuo agitarsi su e giù per i secoli, ogni popolo a celebrare i propri caduti nelle varie guerre che si ripetono insensate.