IsoleBianche

Keren – Il fascino dell’Africa

Cheren si apre al centro della sua grande valle circondata da una corona di alte e rocciose montagne e mi appare in tutta la sua bellezza. È la città araba del Bassopiano Occidentale dove minareti e campanili annunciano una straordinaria mescolanza di religioni secolari. È un’oasi pianeggiante dove transitano, attraverso strette gole, le lunghe carovane di dromedari che si spostano tra l’altopiano e le valli dei grandi fiumi e della pianura sudanese.

Veduta dalla città dall’alto della terrazza dell’Hotel Keren, sulla Rotonda Girofiori.

Traggo ispirazione dalle parole dello scrittore Mauro Moruzzi che in tutta la loro semplicità descrivono il fascino di questa città che ora vedo dispiegarsi ai miei piedi in tutta l’ampiezza della vallata dall’alto della terrazza panoramica dell’Hotel Cheren. È il tramonto e il sole lentamente cala dietro la cortina di montagne in un bagliore di fuoco, mentre s’alza un venticello gelido.

Centro agricolo di primaria importanza, Keren è capitale della regione dell’Anseba.
Tutto intorno alla città si estendono le coltivazioni di caffè, banane, tabacco.

Le strade in basso sono ancora trafficate e capannelli affollati di gente indugiano agli incroci e lungo le vie che a raggiera si dipartono dalla grande rotonda spartitraffico Girofiori. Colonie di ibis stazionano sulle cime degli alberi in un frenetico contendersi lo spazio prima che faccia buio.

Città araba in tutta evidenza, dunque, per via delle moschee, per via degli uomini dai caffettani bianchi e dai panciotti neri che camminano al centro della strada con il turbante in testa, altezzosi mercanti di dromedari, pastori di greggi, artigiani.

Le donne con l’hijab che mostra solo il viso e dalle grandi veste colorate passano veloci per le vie strette da edifici porticati, per lo più a un piano, di chiara impronta italiana. Ma capita di incontrare anche giovani donne musulmane col volto coperto dal burka che incedono eleganti e leggere per i vicoli.

Cheren è, dunque, un crogiolo multietnico dove convivono tigrini, bileni e tigré, luogo di incontro e di lingue e religioni diverse, musulmani, copti, cattolici, ma nessuna tensione ammorba l’aria.

Se Asmara è una città europea, più simile a una cittadina del nostro meridione, non soltanto per l’aspetto monumentale ma, soprattutto, per l’atmosfera che l’anima, Cheren è, invece, l’Africa araba, subsahariana, dove l’impronta coloniale che residua nell’architettura razionale, nel vezzo liberty che qua e là da’ tono a qualche edifico pubblico, come la stazione ferroviaria, ad esempio, è soltanto uno sfondo, la quinta di uno scenario tutto africano, sempre rimasto fedele al proprio stile di vita, incorruttibile alla modernizzazione.

Stupisce pensare che coloni italiani l’abbiano abitata così a lungo, a partire dal 1889, e vi abbiano condotto attività commerciali fiorenti anche dopo la II Guerra Mondiale, perché ora, a ben vedere, di quel periodo ben poco rimane, e gli edifici stessi paiono snaturati in un amalgama del tutto africano.

C’è una città africana, la primitiva Bileni, c’è il quartiere europeo con le magnifiche ville italiane e la stazione ferroviaria, appunto, dove le esili colonne liberty, così fortemente corrose e danneggiate, ancora sorreggono la pensilina in un fortunoso equilibrio precario, prossimo al collasso. Se dovesse rovinare, da un momento all’altro, seppellirebbe i numerosi ambulanti che vi stazionano al riparo dalla luce accecante; ma nessuno pare preoccuparsene, tantomeno quella giumenta che vi si aggira un po’ spaesata, con l’aria di essersi persa; di come sia finita lì è per me un mistero.

La caratteristica stazione ferroviaria in stile Liberty, ora in disuso.

Subito a ridosso del Keren Hotel, tutto intorno, ecco il brulicare della folla, un fiume di colori che si disperde negli stretti vicoli e sotto i bassi portici attorno al mercato coperto dove sfilano le botteghe artigiane dei tessitori e degli orafi e dove incontri i sarti appostati agli incroci pronti a cucirti anche un abito su misura con le loro vecchie Singer a pedali

Dall’alto del cavalcavia della strada che conduce ad Asmara, mi colpisce la policromia degli ombrelloni e dei tendoni tesi a riparo del mercato delle granaglie, del carbone, degli utensili da cucina, dei cereali e delle spezie, un labirinto di vita dove infilarsi tra una bancarella e l’altra, un labirinto che occupa il greto secco dell’Anseba.

Ma ciò che mi sorprende è il mercato del bestiame che si tiene il lunedì. Occupa una leggera altura nella periferia, lungo la strada per Nakfa. Conviene andarci di mattina, molto presto. Il cielo è, oggi, un po’ grigio sul momento, il che spegne i colori. Ma il mercato è già vivo. Mi ricorda i mercati dell’Etiopia, mercati africani, appunto dove è interessante infilarsi, osservare, farsi assorbire dalla gente che ti osserva a sua volta, ti commenta, diffidente, divertita, aperta a un sorriso, o brusca nei modi se infastidita. I dromedari sono lì, altezzosi che ti osservano in quel loro instancabile ruminare lento, vacuo.

Ma il vero colpo d’occhio è quando sali la collina della vasta zona riservata al mercato del bestiame; qui mandrie di bovini, greggi di pecore e capre occupano l’intero spazio in un brulicare di corpi in movimento tra turbanti bianchi, volti scuri, barbuti, le urla delle contrattazioni, le urla di incitamento alle bestie, i colpi sordi delle bastonate sul dorso degli animali più riottosi.

Mi allontano, sazio di colori e odori, del vociare incessante di mercanti e avventori. C’è un luogo di pace, suggestivo, poco distante, un po’ defilato. Appena ne varco la cancellata di metallo con sopra la scritta “EROI”, mi colpisce l’ordine perfetto, algido delle lapidi tutte eguali che convergono, nella prospettiva di vialetti di ghiaia bianca, all’altare in fondo. Cespugli rigogliosi di buganvillea dividono le file dei tumulati in due settori distinti: da una parte soldati e ufficiali italiani, dall’altra quello degli Ascari, tutti ignoti.

È il cimitero di guerra dove sono sepolti 3025 italiani e 618 indigeni eritrei recuperati nel vasto campo di battaglia alle porte della città, teatro del durissimo scontro tra truppe britanniche e italiane combattuto dal 2 febbraio al 27 marzo del 1941.

Una piccola frazione delle migliaia di morti dei due eserciti europei che qui, in Africa si sono affrontati senza pietà, centinaia di chilometri lontano dall’Europa in una guerra per l’egemonia sull’Europa, trascinando in questa rovina soldati indigeni del luogo e soldati spediti qui dall’India coloniale in una carneficina imposta dall’uomo bianco civilizzato, esclusivamente per i propri biechi interessi!

La battaglia di Cheren sancì, di fatto, la fine dell’Impero voluto dal Duce, nemmeno 5 anni dopo la sua proclamazione. Nemmeno 5 anni dopo il massacro inflitto agli etiopici, con ogni mezzo, per la conquista delle loro terre nella più grande guerra coloniale mai combattuta.

Sull’altare della cappella è esposto un registro dove vi sono iscritti i nomi dei caduti identificati. Molte le pagine bianche degli ignoti. Sole, piogge torrenziali, le iene e le razzie fecero scempio dei cadaveri. Gli inglesi vittoriosi, infatti, molto civilmente impedirono per oltre un anno dalla battaglia la raccolta dei caduti italiani ed eritrei.

Questa pace surreale, l’ordine rassicurante, la pulizia del luogo e la leggiadria della lussureggiante fioritura delle bouganville mi sgomentano. Quanto spreco, mi viene spontaneo pensare. Spreco di vite e di risorse. Spreco di tutto per nulla.

Al di là del cancello la vita continua nel tumulto pittoresco di uomini, donne, vecchi, bambini per strade polverose, senza eroi.

Immagini collegate:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *