Approdiamo a uno dei pontili d’accesso al mercato. Infiliamo le lunghe passerelle di assi sovrapposte che risalgono la sponda in un dislivello solidale con le piene del fiume. Occorre cautela e attenzione a dove mettere i piedi, noi così poco avvezzi a superfici sconnesse in bilico tra l’acqua e il vuoto.
La guida Marcos continua ad ossessionarci con il problema della sicurezza. A suoi dire dobbiamo allertarci al massimo se non vogliamo essere scippati in men che non si dica delle nostre macchine fotografiche, telefonini, portafogli eccetera appena mettiamo piede nel mercato. Per sottolineare la cosa lui si fa guardingo, lo sguardo fisso di occhi sgranati e mascella contratta in un’espressione di stolida apprensione. È seriamente preoccupato per noi, ma il mio retro pensiero maliziosamente imputa questa attenzione professionale all’aspettativa di una mancia consistente. Il fatto è che pur inoltrandoci per corridoi stretti di bancherelle, edicole e mercanzie che in un dedalo affollato e chiassoso si dipanano a riempire ogni stradello e marciapiede del quartiere, non riesco a percepire tutto questo pericolo di venire assaliti da anonimi predoni borseggiatori, anche se la suggestione mi induce a farmi guardingo anch’io. Sto forse perdendo il proverbiale sesto senso, affinato in così numerose esperienze di viaggio?
Non posso non riandare con la mente a quando una trentina di anni or sono mi ritrovai a visitare le favelas in quel di Manaus, in piena notte fonda. A scortarmi allora erano alcuni amici conosciuti durante il lungo viaggio sul Rio delle Amazzoni, dalla città di Belén di Pernambuco, e che mi avevano poi invitato a casa loro, del tutto ignaro dove in effetti abitassero e chi veramente fossero. La serata di baldoria non mi aveva obnubilato al punto di non rendermi conto della situazione, ma l’ospitalità del capobanda, da tutti rispettato, mi consentì di raggiungere incolume la strada principale fuori del quartiere per prendere un taxi e tornare in albergo. Mi sono poi sempre chiesto che cosa sarebbe in effetti accaduto se avessero sospettato della mia cinta da pantaloni nel cui doppio fondo nascondevo più di 2000 dollari americani, l’intero budget del mio viaggio.
Il mercato di Belén offre ogni genere di mercanzia, ma quel che più affascina, oltre la vitalità che lo caratterizza in una inarrestabile frenesia di scambi e contrattazioni, è la tipologia delle merci esposta. Perché questo mercato può dirsi la vera porta dell’Amazzonia, la volta sotto la quale transitare per entrare nel pianeta foresta amazzonica.
Il Pasaje Pajito, il cuore del mercato, è una profusione di colori e odori pregnanti delle infinite piante ed erbe raccolte nella foresta, una farmacopea inesauribile in grado di provvedere a bisogni futili e faceti fino alle più gravi malattie conosciute e sconosciute.
Malattie del corpo e della mente, così come le pene dell’animo, a tutto si pone rimedio curiosando in queste scansie di pozioni magiche stipate in fantasie di barattoli e involucri di varia natura tra pelli maculate di oncelot e di otorongo, tra teste mozzate di caimano, carapaci di tartarughe preistoriche, cinture di anaconda, collezioni di ali di farfalle multicolore e di coleotteri dai poteri afrodisiaci, dentiere seghettate di piranha, code e denti di bufeo, il leggendario delfino rosa che qui tutti affermano essere insidioso tentatore di vergini fanciulle.
Tutto ciò che l’inesauribile fantasia dell’Amazzonia produce e offre è qui raccolto ed esposto in amuleti e reliquie preziose di medicamenti portentosi, senza sprechi, senza fronzoli, nella pura essenzialità della conclamata efficacia del prodotto.
Sotto i tendoni tesi a proteggere da sole e pioggia, la luce riverbera in un amalgama di afrori dolciastri e salmastri che ristagnano senza via d’uscita a incanalarsi per le nari e la bocca dello stomaco.
Distese di pennuti smembrati in nudità esangui si susseguono a tranci di carne rossa di bue, di capibara e di aguti adorni di stuoli di mosche, spiedini di vermoni carnosi e succulenti, bacinelle di formiche carnivore fritte. Più in là, su ripiani lucidi di marmo e cemento si dibattono nell’agonia silenziosa pesci dalle forme sconosciute e mostruose in riflessi vitrei di squame su giacigli di ghiaccio macinato a squagliarsi nella calura.
Sono stupefatto dalla quantità e dalla varietà del pescato nelle acque torbide e misteriose delle Amazzoni, per forme e colori insospettabili, da quelle che ricordano corazze di draghi sputafuoco alla tozza maestosità del paiche, il pesce più grande e saporito. E dire che dovrebbe annoverarsi tra le specie protette, come il lamantino, il mammifero d’acqua dolce semi cieco e così mansueto da pascolare sul fondo in un divagare lento che mai lo ha protetto dalla caccia spietata dei conquistadores fin quasi alla sua estinzione. Eppure c’è un tizio che sbraita e se la ride, tutto orgoglioso a esibire il suo trofeo quotidiano, un bel esemplare di mammifero dalla forma tozza, dal muso a proboscide e occhi microscopici che tanto mi insospettisce. A domande precise si schernisce pavoneggiandosi nell’incoscienza e nell’inconsapevolezza di cosa avere in effetti pescato.
Non posso rimanere indifferente alla sofferenza di alcune tartarughe, tutte imbrigliate in reti di corda, che invano cercano di divincolarsi e sfuggire al destino di finire cucinate in piatti saporiti e ridotte poi a souvenir di carapace per turisti senza scrupoli. Ma questo di Belén è il mercato della gente comune, del popolo del fiume che non va poi tanto per il sottile e se ne infischia delle leggi a tutela dell’ambiente e delle specie in via d’estinzione. Fin quasi a farti pensare che tali scrupoli e tale sensibilità siano dopotutto esibizioni da salotto buono di borghesi altezzosi e schizzinosi, quanto arroganti.
Ci sarà mai una via d’uscita a tutto questo?
La pressione antropica si fa sempre più pressante, a perenne ricerca di nuove terre da strappare all’ultima frontiera. Eppure, al di là dell’orizzonte così vasto ma finito non c’è più alcuna altra frontiera, a ben vedere, se non quella del nostro abisso.