Reportage di Ugo Antonelli
Stiamo tornando con le nostre slitte trainate dai cani da Siorapaluk, l’insediamento umano più a nord del mondo, appena una ventina di Inuit, in Groenlandia. Siamo tra il 76º ed il 78º parallelo nella baia di Inglefield Breading a nord di Thule, la base aerea americana costruita nel 1951 in piena guerra fredda. L’Air Force aveva assoluto bisogno di un trampolino avanzato, di una base efficiente in una posizione strategica a solo 2000 miglia dall’Unione Sovietica. Thule era ed è al centro di controllo della DEW Line, una copertura radar dei cieli del Nord che unisce l’Alaska all’Islanda.
Sotto il ghiaccio dell’Inlandsis, la calotta glaciale, furono costruite gallerie per i bombardieri ed i missili con testate nucleari ancora presenti. Una zona non facile da raggiungere. Infatti, solo con l’aiuto ed il patrocinio del Museo Polare “Silvio Zavatti” a Fermo, l’unico museo polare in Europa, ci fu rilasciato, dopo sei mesi di controlli burocratici, lo speciale permesso per visitare e filmare le comunità Inuit a nord di Thule.
Siamo in quattro che abbiamo progettato di avventurarci sul mare ghiacciato in questi giorni di fine aprile in cui la Groenlandia offre le migliori condizioni per andare in slitta. Infatti, il ghiaccio, accumulatosi per tutto l’inverno, in primavera ha uno spessore massimo, quindi maggior solidità e la notte si riduce ad un semplice calo di luminosità fino a lasciare 24 ore di luce, il sole di mezzanotte.
Proseguiamo in mezzo allo stretto di Marchison, dove improvvisi banchi di iceberg si illuminano di tanto in tanto di un turchese intenso che risalta in mezzo al bianco circostante.
“Datemi la neve, datemi dei cani, non mi serve altro!” era solito dire il ricercatore polare Knud Rasmussen, e da qui, seduti sulla slitta trainata dai cani, è difficile non dargli ragione. Stiamo attraversando zone dove tutto, dal paesaggio all’aria che si respira, sa di storia delle esplorazioni. Lo scenario è immutato e l’area da noi attraversata è da sempre nota come base e meta delle spedizioni di Edwin Peary, Peter Freuchen e Rasmussen e, la più recente, nel 1993, quando due cacciatori su slitte con i cani andarono dalla Groenlandia all’Alaska sulle orme di Knud Rasmussen.
Uno di questi cacciatori, Danielsen, guida la mia slitta, con la quale, insieme alle altre tre, percorriamo il Pack ghiacciato alla luce del sole di mezzanotte. Altri due cacciatori delle nostre slitte non sono da meno; il primo, nipote di Peary, l’esploratore americano che arrivò per primo al Polo Nord e l’altro, nipote di un certo Qaaquitsiaq che partecipò alla terza spedizione di Rasmussen.
Dopo tre ore di slitta il tempo sta rapidamente cambiando, un manto di nuvole si dispiega all’orizzonte oscurando il cielo ed avviluppando tutto il paesaggio. Di lì a poco anche il vento soffia di traverso, il termometro sfiora i meno 20 ed il vento lo fa scendere a meno 40. Questo fenomeno viene chiamato “Wind Chill Factor“. Si tratta di una dispersione di calore causata dal vento; ciò significa che il termometro segna la temperatura reale di meno 20, ma un essere vivente subisce un raffreddamento, dovuto all’evaporazione, corrispondente a meno 40.
Ad un tratto scoppia una bufera senza la cortesia di un preavviso e comincia a soffiare sollevando il nevischio del ghiaccio, lo frantuma in piccolissime particelle che sembrano tanti aghi, se hai qualche lembo di pelle non coperta. A fatica, con una visibilità di pochi metri, riusciamo a piantare le tende, appena in tempo.
Il freddo si fa sentire, ma il nostro abbigliamento a più strati di pile e Gorotex al momento regge i meno 40. Siamo i primi a sperimentare questi nuovi tessuti polari fornitoci dalla Napapijri, nostro sponsor. Per molti mesi le foto del gruppo della spedizione nel pack saranno nei dépliant pubblicitari della Napapijri.
Già i cani sono acciambellati come dei porcospini con il dorso rivolto verso nord, il naso ben al caldo sotto le cosce ed in poco tempo spariscono sotto il mantello bianco del grande Nord. Solo l’estremità delle orecchie, appena fuori dalla neve, dicono che lì sotto c’è un cane.
Questa rabbia improvvisa della natura è abbastanza emozionante e, riparato dalla tenda che sbatte furiosamente, dall’interno, grazie all’aiuto di Danielsen a tenermi stretto, con l’obiettivo della videocamera fuori, riesco a filmare delle immagini spettacolari della bufera di neve e vento.
Dentro la tenda, chiusi nei nostri sacchi a pelo, il mio da “5 Orsi”, ci stendiamo sopra una rigida pelle di tricheco che a malapena copre il ghiaccio del Pack che fa da pavimento. Per i paletti della tenda abbiamo usato quelli più lunghi, una trentina di centimetri infissi nel ghiaccio come viti, dovrebbero tenere.
In poco tempo il Primus acceso alza la temperatura interna a meno 10. Si sta bene, si fa per dire, bocca, baffi, naso le uniche parti scoperte. Nei baffi ci sono quasi sempre dei ghiaccioli che si formano con la condensa del respiro.
Cerchiamo di riposare, dormire è impossibile, al massimo un dormiveglia. Per alleggerire la tensione provo a pensare ad altro, praticamente me ne vado, lascio la tenda nella tormenta, volto le pagine del mio atlante di viaggiatore e mi fermo nel Sahara in una fila di cammelli, sto tornando da Timbuctù con la carovana di sale; caldo, dune, iceberg, cammelli, cani con le slitte, freddo, neve, sabbia, che confusione!… Faccio fatica a trovare la retta via per dormire. Mi giro, guardo il volto di Danielsen di fianco a me, russa tranquillo come in una culla, nonostante il rumore assordante del vento che sferza la tenda con violenza. Lo guardo di nuovo, anche lui con i ghiaccioli nei baffi. Gli delego tutte le mie perplessità; d’altronde bisogna sempre porre la fiducia a coloro che vivono l’ambiente in cui ti trovi, agli “indigeni”. Sì buona notte Danielsen, hai ragione, buona notte anche se l’orologio segna le 17!
Alla fine, la stanchezza prende il sopravvento e, finalmente, un dolce sipario cala sugli occhi. Mi sembra poi di essere anch’io in una culla che mi sta dondolando forse un po’ troppo. Riapro gli occhi, tutta la tenda dondola! E poi all’improvviso uno scricchiolio del ghiaccio sotto di noi, si muove leggermente un po’ tutto, poi si ferma. È che stiamo sopra il pack, il mare ghiacciato, sopra a qualche decina di metri di acqua marina. E nel mare ci sono le onde e le onde che arrivano con la corrente, fanno muovere ed anche scricchiolare il metro di ghiaccio della superficie.
È l’alba, tutto tace “Passata è la tempesta odo gli augelli far festa… “, gli augelli no, ma sento gli ululati, l’abbaiare rabbioso ed il digrignare dei denti dei cani che aspettano i pezzi di foca tagliati con l’accetta che Danielsen getta loro, cercando di accontentare un po’ tutti. I più audaci prendono i bocconi al volo e li deglutiscono in un attimo.
Con la testa fuori dalla tenda osservo questo mondo fantasticamente bianco. Questa notte è caduta un po’ di neve, tutto è ovattato dal silenzio glaciale in una riverente e magica atmosfera di quiete. Davanti a me il grandioso spettacolo della natura, la baia ghiacciata disseminata di numerosi iceberg intrappolati nel pack che i raggi del sole, riflettendosi sul ghiaccio, ammanta di fantastiche sfumature. Anche gli altri si affacciano dalle tende, un poco stralunati. La faccia del mio amico alpinista Mario ha quella tipica espressione di sonnolenza che si ostina ad incontrare il risveglio come un orso che si attarda ad uscire dal letargo.
“Buongiorno Mario, tutto bene?”
“Sì, sono un po’ anchilosato, il letto era un po’ rigido e freddo, e tu?”
“Io bene, non mi sono ancora abituato a questa luce continua, mi scombussola gli equilibri, non so se siamo al mattino, pomeriggio, o alla sera. A casa mi addormento sempre con mezza finestra aperta. È la luce del primo mattino che mi dà l’input alla giornata, mi dà il senso dell’orientamento, tanto che quasi sempre indovino l’ora solo osservando la posizione del sole nel cielo.., forse sono un meteoropatico.”
“Ma quell’iceberg lì, da dove è venuto?”
“Anch’io l’ho notato! Forse ieri con la tormenta e la poca visibilità non ce ne siamo accorti”
“Sì, è un iceberg alquanto singolare con una parete a strapiombo alta sui 20 metri e l’altra parte molto più dolce, di una quindicina di metri. È solo la punta che emerge dall’acqua, un sesto di tutto il suo peso, è enorme.”
Mi sto leccando i ghiaccioli dei baffi con la lingua, acqua ghiacciata? No, ci vorrebbe un buon caffè. “Ciao Mario ti lascio che aspetto l’autobus, il 44 che è sempre in ritardo, vado al bar a far colazione, i cani l’hanno già fatta, ti aspetto…”
“Ma va a quel…”
Ora Danielsen, con una pertica in acciaio, stacca pezzi di ghiaccio dal vicino iceberg con riflessi azzurrognoli da far sciogliere sul Primus per il caffè o il tè. Ha scavato un metro sotto lo strato iniziale, nel declivio più dolce e facendo un po’ di conti, dalla lettura e studio dei carotaggi nel ghiaccio, un metro in profondità equivalgono a circa 2000 anni; faremo il caffè con il ghiaccio formatosi ai tempi dei romani! Due giorni fa, invece, il ghiaccio estratto era sotto una leggera linea scura di cenere che corrispondeva all’eruzione del vulcano Krakatoa del 1883, quando le sue ceneri fecero più volte il giro della terra e si depositarono anche nell’Artico. Centinaia di anni per pochi centimetri di ghiaccio!
La calotta glaciale al centro dell’Inslandis, nel cuore della Groenlandia, si avvicina ai 3000 metri di spessore, coprendo nei secoli catene di montagne e, col suo peso, ha abbassato la crosta terrestre di quasi 800 metri. Se si dovesse sciogliere tutto l’Inslandis, la Groenlandia diventerebbe un grande lago, il più grande lago al mondo di acqua dolce, con tante isole in mezzo, le cime delle montagne ora sepolte.
Esco dalla tenda, “Buongiorno a tutti” è un saluto che copre tutto la giornata di 24 ore di luce. Luce fortissima, l’aria è pura, secca, a volte troppo ghiacciata nei polmoni. I pochi centimetri di neve della bufera sono già ghiacciati e scricchiolano sotto le Flack come lastre di vetro. Il pentolino sul primus sta sciogliendo il ghiaccio del tempo dei romani; tra un po’ il caffè, gallette di riso, barrette di miglio e miele, cioccolata, il thermos con il the bollente, e siamo pronti a partire.
Prima di caricare i sacconi, le slitte vengono rovesciate in modo che le chiglie possano essere levigate e quindi passate con carta smeriglio fino a quando non diventano perfettamente lisce.
“Unigit unigit” scrocchiare delle fruste nell’aria, partenza veloce, ansimare della muta, stridio della slitta sul ghiaccio, ghiaccio liscio, perfetto, filiamo veloci come se fossimo in gara con amichevoli sberleffi per chi rimane indietro.
Il pack non è sempre uguale, a volte è fradicio di neve sciolta, a volte è liscio come uno specchio coperto di farina e ci permette di proseguire a grande velocità. Si sta benissimo, la temperatura è solo meno15 e dentro i nostri completi in pile e Gorotex abbiamo quasi caldo. Se il tempo non cambia in 6-7 ore dovremmo coprire gli 80 km della tappa di oggi.
I cani della mia slitta non permettono a nessun altro di passargli davanti. I suoni gutturali dei guidatori che li aizzano sono il suono naturale, il sonoro più perfetto a questo film che sto girando. Ormai li conosco, nella formazione a ventaglio. A differenza dei Ciuckci della Siberia con la muta in fila per due, ciascuno dei cani ha una sua posizione ben definita. Li conto, sono sempre 12, Molluck il capo muta e Kungjng, la sua regina che lo segue dietro. Ma un cane di pelo giallo bruno ci segue a fatica con la lingua penzoloni. È Arnak, una femmina che ha partorito due giorni fa sei cuccioli che ora se ne stanno bene al calduccio, uno vicino all’altro, dentro la bisaccia di pelle di foca dietro alla slitta.
Finita la foga iniziale, ora andiamo, secondo le nostre guide, ad una andatura standard. Non c’è niente di più piacevole che viaggiare quando la natura stanca, dopo la lunga e violenta tormenta, sembra riposare. Le lunghe ombre degli iceberg si stagliano in un paesaggio monocolore scintillante di neve abbacinante e, sotto un cielo leggermente velato di azzurro, le mute dei cani corrono arzille e festose. La sensazione è emozionante, di nuovo grande freddo e di nuovo il silenzio rotto dallo stridio delle slitte sul ghiaccio, dall’abbaiare dei cani e dalle grida gutturali dei guidatori.
All’improvviso Danielsen: “unigit unigit!”; i cani rallentano, tutti rallentano, ci fermiamo. Danielsen osserva col binocolo l’orizzonte, parla con gli altri, indica con la mano, là in fondo, un puntino nero, una foca che se ne sta al sole uscita da una spaccatura del pack. Protetto da un telaio di tela bianca, un foro in mezzo dove spunta la canna del fucile, Danielsen avanza guardingo a carponi per un centinaio di metri. Le mute dei cani, ferme come sagome attonite sono in attesa vibrante. Il tuono secco dello sparo echeggia tra i ghiacci, le mute partono impazzite verso la foca uccisa. Tutto avviene così rapidamente che per poco Mario non viene travolto da una slitta.
Le scene che riprendo sono alquanto crude e pur considerandomi un convinto naturalista, riconosco la necessità degli Inuit di cacciare, è una questione di vita ed anche la natura, in situazioni estreme, non scende mai a compromessi e qui, il crudele gioco della vita è scritto spesso con il rosso del sangue sulla neve. Ma ora non ci sono compromessi, il guidatore della slitta di Mario, estratto il fegato ancora caldo, lo taglia a pezzettini e ce lo offre allungando il braccio. Gli altri Inuit già lo mangiano come una vera leccornia. Marisa, la biologa di Milano che è vegetariana, sta per svenire. Io, Mario e Daniele, l’altro alpinista, non possiamo rifiutare. Sarebbe un atto di scortesia ed io, con una irreale nonchalance lo porto alla bocca, in fretta, come fanno i cani, lo deglutisco per meno assaporare questo nauseabondo odore di pesce marcio. Ha lo stesso sapore della “fitta” di pesce macerato che noi in riviera usiamo quando andiamo a pesca di sgombri. Non lo sapevamo ma il fegato è un concentrato di vitamina B12 e questo è l’unico mezzo per integrarlo all’alimentazione di cui il corpo ha strettamente bisogno in zone al limite, come per chi vive all’Artico di caccia e pesca. Questo odore me lo porterò nei baffi sino ai prossimi ghiaccioli. Non è il caso di dire “un boccone da leccarsi i baffi”.
La foca sviscerata, con gli intestini già nello stomaco del capo muta, viene messa sotto le pelli della mia slitta, proprio dove siedo. Alla temperatura come quella del freezer, si mantiene. D’ora in poi la mia stabilità sarà un poco precaria perché lo spirito della foca, a dir la verità un po’ arrabbiato, mi fa “squillare”, slittare, scivolare, ora destra, ora a sinistra.
Dopo due ore con la luce del sole di mezzanotte, infatti sono le 11 di sera, raggiungiamo la nostra meta, un isolotto roccioso a cui si è appoggiato un grosso iceberg con una specie di galleria sotto; è veramente bello, ci vuole una foto!
Di nuovo i preparativi per il campo. Qui solitamente si fermano gli Inuit di ritorno dalle battute di caccia di foche, trichechi, orsi, ed uccelli marini, simili a piccoli pinguini bianchi e neri e che chiamano Kiviak. Uccelli che vengono lasciati putrefare per giorni sotto dei sassi, per via delle volpi e, una volta macerati, sono assaggiati prendendoli per le zampe, portarti alla bocca e succhiati come una vera leccornia, “De gustibus non est disputandum”!.
Piantate le tende, anzi appoggiate per via del permafrost e rinforzate con pezzi di ghiaccio, io e Mario ci aggiriamo curiosi tra ciò che rimane di un antico insediamento Inuit lasciato da tempo alla mercé del vento glaciale e delle basse temperature. In una zona alquanto in piano rimangono dei pali con dei graticci in legno spiaggiato dove i cacciatori, una volta macellati gli animali, stendevano le pelli ad asciugare.
Oramai è mezzanotte, il sole non tramonta, si abbassa sino a toccare il labile confine tra cielo e terra, si ferma un poco a riposare e poi, ricaricate le pile, riprende a salire dall’altra parte. Mentre aspetto che il sole si rialzi c’è un arrossamento di buon auspicio nel cielo verso ovest. All’orizzonte, in controluce potenti miraggi simili a blocchi di ghiaccio contorti dalle forme allungate, sono in fila e, appiattiti dal teleobiettivo, sembrano le navi di una flotta fantasma.
Un gabbiano solitario mi supera, col battito d’ali vola dolcemente nel cielo velato di un azzurro quasi rosa, mentre una frizzante e gelida ventata alle spalle mi risveglia da questo scenario a dir poco idilliaco.
“Ugo, vieni a vedere quante ossa ci sono qui!” Infatti non lontano dai graticci, nel pianoro vedo molte ossa: vertebre, costole, spine giganti di pesci, qui un teschio di orso incompleto e lì vicino, una zampa d’orso con tanto di artigli; la distacco dalla morsa del ghiaccio.
“Questa la dono al museo polare di Fermo” Chi visitasse oggi il museo polare vedrebbe la zampa di orso dietro la vetrina di una bacheca artica assieme ad altri reperti raccolti nella prima spedizione artica in Ciukotka del 1995.
Dove il sole ha maggiormente scaldato la roccia, con le Flack calpesto una specie di “paciugo” , una granatina indefinita di ghiaccio, terriccio intriso di sangue, le tracce della mattanza, della macellazione. Si respira quella tipica atmosfera della macellazione, l’odore della morte. Una cosa simile la provai nel lontano 1969 a Carloforte in Sardegna, in una delle ultime tonnare con centinaia di tonni sviscerati con affilati coltelli da marinai pescatori completamente sporchi del rosso del sangue. Per fortuna i 20° sottozero non espandono gli odori. L’aria è pura, secca, ghiacciata nei polmoni ma i vari strati di pile e Gorotex che ci avvolgono ci proteggono.
Sotto una delle assi accatastate a terra, dal ghiaccio vedo spuntare un tubo in ferro, che strano! Mi chino, alzo a fatica la tavola di legno incastonata nel ghiaccio e sorpresa. Il tubo è la canna di un fucile. Non riesco a muoverlo, è troppo inglobato nel permafrost, mi faccio dare la piccozza da Mario ed insieme ci diamo da fare per liberarlo.
“Ecco che viene, tira, ancora un po’…” Crack, parte del calcio in legno è rimasto sotto!
“Ma è un fucile vecchio” la canna è piegata leggermente e dall’otturatore al percussore è molto arrugginita. Dal passante per la cinghia sul calcio, un filamento di cordame sfilacciato.
“Ma qui ci sono delle sigle!” Puliamo, si legge U. S. Rifle M 1917 field; a casa ho fatto ricerche dalla foto del fucile, era un Enfield MK 111, fucile americano utilizzato principalmente dalle forze britanniche e danesi. Con una gittata di 3000 metri era anche un ottimo fucile da caccia.
Stiamo ritornando alle tende, un sasso abbastanza liscio sporge dal ghiaccio.
“Strano qui è tutta roccia scura, ma è un osso, che osso di animale è così liscio?” Mario cerca di liberarlo dal ghiaccio, un colpo, due colpi, si spezza! È un teschio umano e lì vicino un altro, sono perfettamente mimetizzati. Chiamo il mio guidatore Danielsen che ha appena sfamato la sua muta di 12 cani con la foca intera uccisa oggi. L’hanno divorata deglutendo pezzi di carne di quasi un kg in un solo boccone. Danielsen osserva incuriosito anche lui i due teschi, non sa dare una spiegazione, forse cacciatori, esploratori. Il permafrost non permette di fare sepolture profonde e quindi si coprivano i corpi con i pochi sassi reperibili per sottrarli agli animali, specialmente le volpi. Danielsen ha parlato di esploratori, infatti la zona da noi attraversata è sempre nota come base e meta delle spedizioni di Edwin Peary, Peter Freuckenn e Rasmussen. La storia delle spedizioni artiche ci segue indirettamente nel tempo.
Siamo tornati alle tende “tra un’oretta la carne di foca nel pentolino sarà cotta”.
“Allora io provo a fare una arrampicata sull’iceberg” dice Mario. Gli inuit scuotono la testa e fanno segno di disapprovazione, ma il desiderio di arrampicare e più grande di qualsiasi consiglio di prudenza. Ci avviciniamo all’iceberg, do a Mario la telecamera più piccola affinché possa filmare dall’alto, io lo riprendo con quella professionale dal basso. Un affondo della piccozza ed una puntata dei ramponi col piede poi l’altra piccozza e l’altro piede, la salita è verticale e Mario sale, passo dopo passo come una cosa naturale. Dopo la salita all’Everest non ha più alcuna paura ed ora si trova aggrappato ad una parete di ghiaccio ad una ventina di metri dalla base con il vuoto sotto. Solo a vederlo mi vengono le vertigini, mi fa quasi paura, non voglio immaginare altro! Senza uno spirito di incoscienza non ci sarebbe nessun alpinista. Certo una volta in cima la soddisfazione è impagabile. Di fianco a me gli inuit guardano increduli e lo invitano a scendere, qua siamo fuori dal mondo e l’iceberg può essere imprevedibile, in qualsiasi momento può frantumarsi, capovolgersi e tonnellate di ghiaccio possono precipitare all’improvviso. Le scene che sto filmando sono veramente da mozzafiato.
“Bravo Mario però ora torna giù!”. Alle narici mi arriva il profumo, si fa per dire, dei pezzi di foca che stanno cuocendo. Danielsen mi spiega che solo dopo gli anni ’50, con l’arrivo degli americani per la base aerea di Thule, hanno iniziato a cuocere la carne. Prima si mangiava cruda come i cani, tenendo il pezzo di carne teso tra i denti e le dita della mano, tagliandola poi in bocconi con il coltello. Certamente era tutto un altro sapore!
Tra un po’ si cena, le luci della sera allungano le ombre, lontano, ogni tanto si sentono dei “toc” secchi, tonanti che si espandono per tutto il fiordo che qui è largo una decina di chilometri. Sono blocchi dell’Islandis ad un centinaio di chilometri che si staccano dal ghiacciaio e poi, una volta in mare, vanno a formare gli iceberg alla deriva anche se intrappolati nella morsa del Pack. Con questa luce, provo mentalmente a crearmi l’idea di andare a dormire in tenda
“Ma come si fa a dormire con tutta questa luce, non si capisce più nulla, sono alquanto scombussolato!” E l’amico Mario: “Se hai problemi con la luce per dormire, vieni quando la notte qui all’Artico dura sei mesi!, faresti certamente un lungo sonno da sprofondare nell’eternità!”.
Do un’ultima occhiata fuori, tutto l’universo è attorno a me, sono in una piccola parte di mondo, ma completamente fuori da tutto l’altro mondo. A casa se non sei aggiornato delle notizie dei telegiornali, sembra che non si possa vivere; qui proprio non mi interessa nulla di cosa possa accadere “oltre”. Sto bene così, ed una profusione di leggerezza e serenità pervade il mio animo.
Lontano, ad un centinaio di metri sopra uno sperone di ghiaccio immobile, bianca come il bianco che la circonda, orecchie ritte, una volpe artica mi sta osservando. Ancora un poco e ci sarà abbastanza luce per dormire, buona notte piccola volpe, anzi buongiorno!