È il 25 luglio 1921, l’ennesimo mattino impossibile di quella faticosa estate tormentata dai monsoni. Tira vento e il nevischio s’infittisce imbiancando le sparute tende al Campo Base, minuscoli segni lasciati dall’uomo sotto enormi massi grigi, trascinati a valle per millenni dal ghiacciaio Rongbuck. La luce opalescente benedice le nuvole di abbagliante candore che annienta le montagne e nasconde l’Everest. Se non fosse per quel manipolo di forestieri che animano il campo, ombre sbiadite dalla vastità, questo luogo preistorico e desolato continuerebbe ad esistere senza un nome, puro coacervo di rocce e massi forgiati da una volontà bizzarra, segni della natura questi, ancora indecifrabili.
Nell’arco di un mese Mallory e Bullock hanno risalito il ghiacciaio, lottando contro il vento e le tempeste monsoniche, e sono riusciti finalmente, primi tra gli uomini, ad osservare da vicino la montagna, le sue ripide creste ed i burroni terrificanti scoprendo che “quel che si racconta dei facili pendii ricoperti di neve è solo una favola”. Ma la via per la conquista di quella fortezza che sembra irraggiungibile continua a celarsi in un mondo ancora ignoto, ostile ed impenetrabile. Il ghiacciaio Rongbuk, più che una via maestra all’Everest, si è rivelato un ostacolo insormontabile, un dedalo di seracchi e pinnacoli che si trasforma in cascata di ghiaccio proprio sotto la Parete Nord. Una foschia densa stagna sulla coltre nevosa incandescente per il riverbero, e l’aria spessa di vapor acqueo appesantisce il respiro ed il corpo evaporandone ogni energia. Il paesaggio affascina, ma lo sforzo di salire e la quota impegnano tutte le forze. L’eccitazione e solo l’eccitazione della scoperta ti fa sopportare queste fatiche enormi, inumane, la lotta contro l’aria sempre più sottile, la neve appesantita dai monsoni, il vento. Il maglione di lana ti si appiccica addosso in un grumo di sudore che cola lungo la schiena, e lo zaino di tela si gonfia ad ogni pioggia. Gli scarponi di pelle sprofondano nella neve molle e non c’è alcun indumento che possa contrastare il dolore acuto del ghiaccio sulla mandibola gelata dal vento. E dietro, più in basso, vedi arrancare i portatori tibetani carichi delle tende per il bivacco, curvi sotto il peso dei viveri e di tutto l’equipaggiamento ingombrante e grave di un’attrezzatura ancora arcaica. Ma questi sono uomini avvezzi a sperimentare sé stessi oltre i limiti conosciuti.
Ai primi di luglio, in uno squarcio improvviso tra le nubi, si rivela l’intuizione risolutiva. È appena un colpo d’occhio, ma a Mallory è sufficiente per convincersi che quella apparizione potrebbe essere l’unica via per salire fino alla vetta. Dall’alto di un rilievo che domina il ramo occidentale del ghiacciaio Rongbuk, Mallory e Bullock osservano la linea ardita disegnare il cielo inerpicandosi tra creste e spigoli rocciosi, dalla sella nevosa del Colle Nord fin sulla spalla della montagna e poi su per lo spigolo Nord Est fino alla cima. È un’inclinazione accettabile, si dicono, una scalata del tutto fattibile. Così sembra e, per un momento, la meta è a portata di mano, non più un sogno impossibile. La chiave di volta del problema è appunto il Colle Nord, è subito chiaro, perché una volta saliti lassù la via alla cima si delinea chiara, aerea, benedetta dal sole dell’alba. È il mondo d’abbasso, piuttosto, chiuso tra i seracchi del ghiacciaio che si serra caparbiamente nell’oscurità dell’ignoto ad impedire ogni tentativo di approccio alla parete nord, così come al Colle. Basterebbe scoprire come arrivarci. E poi, se ti affacci sul versante nepalese, proprio davanti, guardando a sud, “si apre un precipizio senza speranza” dritto sul circo Occidentale, “terribilmente freddo e scostante”.[2]
Non c’è alcuna possibilità nemmeno di là, conclude Mallory.
Entusiasmo e delusione si alternano come l’umore variabile delle condizioni atmosferiche. E l’ispessirsi delle nebbie impedisce un chiarimento convincente sulla esatta morfologia dei luoghi. È un continuo ricorrere alla memoria, nel tentativo di comporre le tessere di un puzzle sfuggente in un mosaico che al caos apparente doni l’ordine di un significato compiuto. Il tempo trascorre inoltrandosi nell’estate tra fatiche e tentativi ognuno dei quali rivela un pezzo di più di questa terra incognita ed un poco di più di sé stessi, delle proprie capacità e dei propri limiti. I portatori accettano queste fatiche come un giro della ruota del tempo. In questi forestieri venuti da una terra che non conoscono vedono il segno di una volontà insondabile ed inspiegabile. Non si ribellano, ma temono in cuor loro il disappunto delle divinità che albergano sulla montagna, la furia degli spiriti del luogo. Ma quella, il Chomolangma, come chiamano i tibetani l’Everest, sta sempre là, avvolta tra le nubi estive e nulla concede agli uomini.
Ardono allora gli Sherpa rami di ginepro negli improvvisati bracieri di pietre accatastate a forma di rupestri chorten e il profumo si spande nell’aria levandosi come lieve preghiera per pacificare gli spiriti maligni. È un rito che si ripete, immutato, e nessun alpinista vi si sottrae oggi come a quel tempo. Ci scherniamo per lo scoprirci superstiziosi, ma nessuno di noi oserebbe sfidare la sorte della propria vita contro i pericoli della montagna per un caparbio convincimento nella supremazia della ragione.
La forza dell’uomo è poca cosa se alzi gli occhi al cielo.
Finora Mallory e Bullock hanno esplorato solo il versante occidentale della regione. E il Colle Nord sembra chiudere l’orizzonte proprio in quel punto in cui gli alpinisti pensavano di avere trovato la soluzione. Il problema rimane insolubile, come raggiungere e salire su quella maledetta sella?
Da ovest è impossibile.
Possono esserci delle alternative?
Era ora giunto il momento di aggirare l’Everest da oriente.
La spedizione britannica di ricognizione all’Everest avrebbe levato le tende quel 25 di luglio, come un piccolo esercito in ritirata, cavalli e yak a scendere lungo la stessa valle che avevano risalito un mese innanzi, seguendo il corso dello Dzakhar tumultuoso fino a raggiungere la valle di Kharta, circa 60 km ad est. Non avevano mappe geografiche a quel tempo e uno dei compiti della spedizione era proprio quello di cartografare tutta la regione. Per tutto il mese di luglio, il capo spedizione Howard Bury aveva esplorato il territorio con questo intendimento, spingendosi a sud, fino al confine con il Nepal. Qui aveva individuato l’accesso di una valle, quella di Kharta appunto, che sembrava nascere direttamente dai contrafforti orientali dell’Everest. Ora che l’esplorazione del versante occidentale poteva dirsi conclusa, Bury aveva quindi deciso che la ricognizione avrebbe proseguito partendo proprio da quella valle. Se non era stato possibile forzare la fortezza da nord, avrebbero tentato da est.
Quel mese era stato snervante, il tempo inclemente. La desolazione del ghiaccio e della roccia, la solitudine, il freddo e poi il caldo insopportabile del riverbero, quel pietrame instabile sul quale gli alpinisti camminavano, il disagio delle tende, l’oppressione del cielo basso di nubi plumbee alla lunga avevano fiaccato anche lo spirito più determinato. Il sublime non concede sconti e non ha nulla di confortevole e l’idea romantica della lotta all’alpe svanisce soffocata dall’altitudine, dall’insonnia, dalla monotonia dei giorni interminabili di tempesta.
Mallory era animato dalla forza di una grande determinazione, era spronato dall’idea stessa dell’Everest, quell’idea che aveva sentito crescere con la forza ossessiva del destino, ed anche se la spedizione del 1921 non aveva l’obiettivo di conquistare la vetta, ma solo di studiare il territorio e la possibile via di scalata, lui coltivava in sé il segreto proposito e la speranza che avrebbe potuto almeno tentare. Eppure, quel mattino di fine luglio un senso di frustrazione era calato sulla colonna in ritirata con il silenzio pesante della spossatezza, quell’inedia che ti fa avanzare come un automa e che ti taglia le gambe ogni volta che varchi il limite della quota. Una sensazione che avevano imparato a conoscere bene, salendo sempre più in alto.
Ora l’imponente sagoma della montagna rimpiccioliva alle loro spalle, a mano a mano che scendevano, svanendo come l’aspettativa illusoria della facile conquista che Mallory e Bullock avevano provato arrivando. Appena un mese prima l’immagine dell’Everest, che sovrastava in fondo alla prospettiva della valle, minimizzando i contorni del paesaggio, aveva dato l’illusione che l’avvicinamento sarebbe stato facile e senza ostacoli. Ora avevano veduto ciò che andava visto e se ne andavano animati solo dalla speranza che la valle di Kharta offrisse una valida e fattibile alternativa.