Sonnecchio tra le braccia di Shiva, osservando il gioco delle nubi che s’impigliano sulle creste dello Shivling. Solo il rumore del vento spazza la morena del Gangotri Glacier e lo sbatacchiare furioso dell’alto tarchiòg, la bandiera votiva alla cui base mi sono rannicchiato. Trenta metri più in basso scorre il torrente che bagna le quattro casupole di Tapovan prima di precipitare nel ghiacciaio dove nasce il Gange, con fragore violento. Questo è uno dei luoghi più sacri della terra. Qua e là lingam di pietra indicano la strada ai pellegrini, l’accesso a questa immensa cattedrale che ha per volta il cielo e per solide mura i 7000 metri dello Shivling e dei Baghirati, e dove il lastricato è questa tormentata morena in cui confluiscono i colatoi dei monti.
Di tanto in tanto qualche valanga squarcia il silenzio con il suo cupo rimbombo, inghiottito dalle nubi che incombono sempre più basse nell’imbrunire, cancellando alla vista, una dopo l’altra le vette più alte. Mi trovo su di un terrazzamento formato dal confluire delle morene del Gangotri Glacier e dello Shivling, inverdito a brughiera dall’umidità che qui ristagna, protetta da queste formidabili barriere naturali. Appena alle mie spalle lo sguardo può tuffarsi sul ghiacciaio vero e proprio, in un marasma di giganteschi massi, pinnacoli e laghetti color turchese che impercettibilmente si muovono, si scompongono e ricompongono all’infinito lungo tutti i suoi oltre quaranta chilometri di lunghezza.
Qui vive un baba, in romitaggio, da oltre una decina d’anni. E poi una donna, una santa, cosi dicono, che ho intravisto arrivando, la pelle incartapecorita da molti implacabili soli, annerita ai fuochi di interminabili giorni solitari. Tapovan, prima di essere un luogo geografico, è una fantasia della mente; un sogno, materializzatosi nella notte dei tempi, come espressione della sacra e magica parola “OM” pronunciata dal Dio.
“In origine tutto era OM”, mi dice il Baba con un gesto ampio della mano ad indicare l’universo. E nel silenzio della grotta, le sue parole vibrano come l’afflato della vita.
La pioggia ha preso a cadere con insistenza e le nubi si sono ingoiate ogni cosa, riducendo lo spazio a pochi metri dall’ingresso. Oltre, non c’è più alcun rifugio sicuro.
Cinquecento metri più in basso, da qualche parte, il Gange continua a nascere con la forza di un infante già pieno di vita e dal carattere imperioso. Centinaia di chilometri più a valle, frotte di penitenti ogni giorno si immergono nelle sue acque per riconciliarsi nell’abbraccio della divinità. E, tutt’intorno, il mondo intero continua a vivere nella vorticosa girandola delle proprie contraddizioni, nell’incerto equilibrio tra bene e male, tra sacro e profano. Ma questi sono solo pensieri, congetture. Se guardo oltre la penombra della grotta non esiste più nulla.
Come ha fatto l’uomo a scoprire da tempo immemorabile un luogo cosi impervio e inospitale?
Mistero!
Mi sono fatto due giorni di autobus da Delhi a Gangotri coprendo una distanza di circa cinquecento chilometri e due giorni di cammino, di cui uno solo per attraversare la morena del ghiacciaio. Figuriamoci cosa doveva essere questo viaggio più di duemila anni fa!
Semplice!
“Questo luogo è il centro della terra, lo è sempre stato, fin dalla notte dei tempi.”
Il Baba mi sorride con dolcezza passandomi il chillum che ha appena acceso. Gli occhi gli brillano alla luce del fuoco. Sarà l’hashish, o la sua invidiabile serenità gli viene dal fatto di sedere sul centro del mondo?
A gambe incrociate, nella posizione del loto, trascorre giornate intere spostandosi quel tanto per afferrare con le mani ciò che gli serve; veramente poco: un pizzico di tè, una patata, un po’ di latte in polvere. Al sacco di farina, fuori della sua portata, provvede l’assistente – discepolo, il quale va anche a prendere l’acqua giù al fiume e prepara il chapati. Siede in un cantuccio, di fronte al Baba. Il volto grifagno ricorda le figure di Bosch. Anche lui ha gli occhi dilatati per il molto fumare. Alimenta il fuoco con qualche pezzo di legna. Anziché parlare grugnisce. Quando gli offro delle bustine di karkhadè le getta tutte insieme nel pentolone, senza togliere l’involucro di carta. Provo a protestare, ma mi risponde con un sorriso vacuo e ancestrale.
“Baba, quando pensi che smetterà di piovere?”
La domanda è banale e la risposta scontata. Il Baba aggrotta la fronte e socchiude gli occhi a cercare l’ispirazione divina. Ogni suo gesto è sacro.
“Solo Shiva lo sa!” Poi con l’indice, ad indicare il cielo: “La neve sui monti porta il bel tempo!”
I Baba sono al di sopra delle caste. La gente li considera incarnazioni del Dio e attribuisce loro poteri soprannaturali. La rinuncia stessa ai beni materiali, ai piaceri del mondo, li pone al di là di ogni legge umana. Per questo sono temuti e venerati allo stesso tempo. Ogni loro stranezza è segno di sacralità. Ogni loro parola è parola di Dio.
Il grande Saggio e Baba Kapila, secoli e secoli fa, incenerì con un’occhiataccia i sessantamila figli del re Sagar solo perché avevano osato disturbare la sua meditazione. Ma la loro anima poteva essere salvata solo se la dea Ganga fosse discesa sulla terra a purificarla. Così altri saggi si diedero da fare per commuovere gli dei. Gli anni passavano, ma la dea Ganga era sempre riluttante a lasciare il suo Olimpo. Finché il re Bhagirati, dopo lunga meditazione ai piedi dello Shivling, proprio qui a Tapovan, riuscì a farsi ascoltare. Ma la dea Ganga minacciava di distruggere la terra con la forza delle sue acque. La faccenda era seria e se ne occupò Shiva in persona, offrendosi di sopportare e contenere tale forza.
Le acque calarono dal cielo e si impigliarono nelle chiome fluenti di Shiva. Allora il re Bhagirati iniziò a meditare per propiziarsi Shiva, all’imbocco di una grotta chiusa da alte pareti di granito. Shiva ne fu contento e lasciò che le acque scorressero dai suoi capelli in tre fonti distinte, una delle quali arrivò finalmente sulla terra, l’attuale sorgente del Gange, che in onore del re Bhagirati qui prende il suo nome. È quindi riconducibile a questa leggenda il significato dell’abluzione come purificazione da ogni peccato; in virtù della quale l’anima dei sessantamila malcapitati poté riposare in pace.
I Baba dunque possono essere anche irascibili, vendicativi, insomma, cattivi!?
Ne ho incontrato uno a Rishikesh, al ristorante, barba e capelli lunghi ed incolti, saio rosso fuoco, un sadhu certamente. Aveva per discepolo un bianco, un americano, testa rasata, pigiama candido, che lo serviva e riveriva, peggio di uno schiavo. Non contento, trattava i camerieri a pesci in faccia con una prepotenza sconcertante. Un altro sadhu, a Gangotri, pur essendo in là con gli anni, non si risparmiò la fatica di inseguirmi, bastone in mano, solo perché avevo osato scattargli una fotografia. Casi di arteriosclerosi? Non mancano nemmeno coloro che si mettono in posa come divi, per rimediare qualche rupia o per semplice vanità, compiacendosi della propria figura stravagante nell’interpretare chi un personaggio temibile, chi sensualmente femmineo. Come quel giovane Baba che si era fermato a riposare lungo il sentiero, adagiandosi su di una lastra di granito nella posa da antico romano sul triclinio, turbante e tunica arancio carico, su cui brillavano chincaglierie varie. Gli occhi di khashal mi sorrisero con voluttà mentre la mano abbozzava con dolcezza un saluto seducente.
Del resto, è scritto che: “I brahmini (alias baba) devono essere onorati anche se si dedicano ad occupazioni profane di ogni specie, perché ognuno di loro è una grande divinità“.
Non so come, la conversazione scivola sulle donne. Gli occhi del Baba si illuminano in un lampo di malizia e ride di cuore. Le donne gli piacciono, eccome! Con la sua prestanza fisica e la sua bella faccia farebbe furore, ma è Baba e l’amore carnale non è per lui. Scommetto che si è lasciato alle spalle qualche bella ragazza in lacrime prima di rifugiarsi tra le braccia di Shiva. Sono tentato di chiederglielo, ma mi trattiene un barlume di reverenza. Inoltre, non sarebbe affatto strano che la sua vita avesse seguito un simile corso. Negli antichi testi, infatti, la vita del brahmino, cioè del santo nel suo significato generale, comprende quattro tappe: quella del celibato dedicata agli studi, quella del matrimonio dedicata alla famiglia, quella della rinuncia alla società (vana-prastha), quella della rinuncia ad ogni legame terreno. La vocazione ascetica quindi non rinnega affatto la vita del comune mortale, ma la santifica come un’evoluzione dell’essere sulla strada dell’illuminazione.
Non deve quindi stupirmi l’insistenza con la quale il Baba cerca di convincermi a regalargli la torcia elettrica frontale, nonostante gli abbia già elargito una pentola a pressione nuova e un po’ di viveri avanzati dalla spedizione alpinistica al Kedar Dome. La rigira tra le mani con curiosità puerile, affascinato dalla luce di quel piccolo prodigio tecnologico.
“Tu vivi in città piene di luce, mentre per il Baba è difficile quando non c’è la luna piena…”, mi dice infine per indurmi a compassione. Difficile resistergli! Ciò che lo rende simpatico, vicino, nonostante i nostri mondi siano lontani anni luce, è proprio questa semplicità, questo essere “umano” al di là della fede, al di là di privazioni e prove per noi inconcepibili. Ed è questo che in definitiva mi affascina.
Rimango abbagliato dai colori dei templi induisti, confuso davanti alla proliferazione di dei e semidei buoni per ogni occasione e accidente della vita, mentre la mia mente rifiuta di complicarsi l’esistenza a cercare di capire cosa e come si muove questo Olimpo popolato di fiabe. In realtà, la forza dell’induismo, paradossalmente, sta nella sua semplicità, nel gesto che rende sacro anche il quotidiano più banale; a ricordare che anche nella vita di ogni giorno vi è bellezza, perfino nella mortificazione del corpo, nell’abiezione della miseria. I templi indù mi inducono al sorriso, mi mettono di buon umore. Ognuno è la casa di un dio che rappresenta sentimenti differenti. Nonostante alcuni siano stati edificati con l’evidente intento di incutere timore e spaventare il fedele, l’esagerazione cromatica, la grottesca simbologia delle statue finisce per renderli kitsch. Bisogna glorificare la divinità e propiziarsene i favori? Allora se ne ricoprono di ori le effigi, le si adornano fino all’inverosimile di tessuti dai colori sgargianti, di collane che brillano come astri: Ganesh è benevolo, Parvati è bella e pura, Kali è terrifica, Shiva è il Signore del mondo, quest’altro la forza che lo solleva… Tutte le possibili aggettivazioni dell’essere esplodono di colori e forme in toni così accesi da svelare una certa purezza d’animo di fondo, al di là di qualsiasi speculazione teofilosofica.
La città santa di Haridwar ne è un esempio. I suoi templi mi appaiono come tante torte di panna montata, ingentilite da miriadi di statue al marzapane. Osservando la lunga teoria di casupole e templi allineati lungo le sponde del Gange, mi appare come una città dei balocchi che la sera si anima della tremula luce di tante fiammelle: i fuochi da bivacco accesi dai Baba, i lumini votivi che i fedeli affidano ai gorghi del fiume, in barchette di foglie e fiori. E com’è toccante quel semplice gesto a esprimere le loro speranze che il Gange subito disperde nei vortici della corrente!
E poi, il tempio di Barila a Delhi; è una costruzione leggiadra, aperta su ogni lato in arcate spaziose, alla luce del sole. I marmi danno un senso di frescura che rende piacevole il raccoglimento e la preghiera. Sebbene il tempio sia abbastanza spoglio, costruito in modo semplice, la statua che rappresenta Shiva è carica di ornamenti dorati, di ghirlande di fiori variopinti. Il Signore dei Signori ha il volto di un fanciullo dallo sguardo benevolo e ingenuo. Per rappresentare l’idea di infinito, la “cappella” dedicata a Krisnha ha le pareti e la volta ricoperti di specchi. Entrando la mia immagine si riflette in ogni direzione in un gioco prospettico del tutto simile a quello che si può sperimentare in qualsiasi Luna Park che si rispetti. Nella sala principale i devoti indugiano in preghiera o semplicemente si fermano a chiacchierare, mentre i bambini corrono qua e là e disperdono le loro grida nei giardini intorno al tempio.
Ovunque è possibile scorgere testimonianze di fede di questo tipo, in mezzo al più caotico dei mercati, come nelle stradine di campagna o in un angolo di qualche edificio diroccato. Fede e vita non sono momenti separati, ma convivono e si confondono nel quotidiano, ogni fedele eleggendo un dio di questo vasto Olimpo come riferimento privilegiato, come proprio interlocutore nel personale rapporto con il soprannaturale. La metafora della vita, in cui gli dei sono i simboli, si qualifica cosi interamente degli attributi che l’umanità riconosce come propri; ed è forse per questo che l’induismo, a dispetto di un’evoluzione plurimillenaria, conserva quella freschezza che sembra riportarci direttamente all’alba dell’uomo, a quella mitica epoca in cui l’uomo non si era ancora allontanato dalla natura.
È con la sensazione di qualcosa di arcaico che, disteso nel sacco a pelo, aspetto che il sonno mi colga, mentre la volta della grotta si accende ai bagliori del fuoco che il Baba attizza come uno stregone, preparando l’olio e l’incenso da offrire agli dei.
Le tenebre da un pezzo hanno preso il posto della nebbia. Un giorno è passato, cosa incredibile, senza nemmeno farci caso, nella più completa inattività. E anche più incredibile è il fatto che si possa vivere nella più completa assenza di tecnologia.
Osservando l’elegante movimento delle mani con cui il Baba accende il lumino votivo, non posso fare a meno di pensare che, in questo stesso istante, qualche altro uomo sta volando migliaia di chilometri sulla nostra testa, chiuso in una navicella spaziale e che la distanza temporale tra questo momento, confinato nell’eternità, e il concitato dinamismo della nostra epoca si copre in qualche ora di aereo.
È il momento della preghiera, e il canto sussurrato del Baba mi culla come una rassicurante ninnananna. Mi ricorda la voce di mio nonno quando lo sentivo recitare il rosario immancabilmente, ogni notte, prima di dormire ed io mi stringevo sotto le gelide coperte al buio ad ascoltarlo. Quando riapro gli occhi è una radiosa giornata di sole e lo Shivling risplende tutto ammantato di neve.
Anche stavolta Shiva è stato benevolo!