“Dei guerriglieri della selva avevo già sentito parlare giù a Lima, e ad Esperanza. Si concentravano soprattutto nella zona dell’Inuya, lungo l’Ucayali, quasi a ridosso delle ultime propaggini della Cordigliera, o addirittura molto più a nord, sul rio Napo, tra Ecuador e Colombia. E quando qualche guarnigione militare veniva annientata, o quando poveri cholos venivano massacrati nei pochi villaggi ai margini della selva, se ne faceva un gran chiasso, i giornali ne parlavano, s’invocava l’intervento del governo, perché mettesse fine alla guerriglia. Allora, altri soldati partivano, altri cholos venivano giustiziati, accusati di complicità, a torto o a ragione, ma dei famigerati guerriglieri nessuna traccia. In verità, i militari se ne guardavano bene dall’infilarsi in una simile avventura nell’intrico di quei fiumi e lagune, preferendo rifarsela sui contadini indifesi, piuttosto che affrontare gli Ashaninka, padroni assoluti del loro territorio, il Gran Pajonal, in cui nemmeno gli spagnoli, all’epoca della Conquista, erano mai riusciti a penetrare. Sapete – riprese Francisco come trasognato – a volte immagino questa terra un giorno libera, oh sì, libera da ogni minaccia….”
Francisco aveva allungato il collo a cercare tra le fronde della mulatera quel manipolo di scimmie che facevano un gran baccano. Avevano preso a scorrazzare su e giù per il grosso tronco, lanciandosi da una liana all’altra, schiamazzando sfacciate a quel sogno.
“Una nazione india…. Sarebbe poi così folle?”
Traggo queste righe dal mio “Amazzonia Interiore”, pubblicato nel 1988. Ciò che mi sorprende è l’aver espresso, al tempo, un sentimento che poi, del tutto casualmente, ritrovo di recente nel romanzo “Indio” dell’alpinista e scrittore Franco Perlotto, pubblicato nel 2014. Quello di una nazione india come unica risposta possibile per salvaguardare l’Amazzonia.
In sé l’idea contempla tutta l’avventura e il richiamo fascinoso della ribellione a qualsiasi sistema costituito, una ribellione nella quale rifugiarsi e che trova collocazione fisica in questo ambiente. L’illusione che l’asprezza del territorio, la sua selvatichezza sia sufficiente a tenere lontana qualsiasi minaccia, così come fecero gli Ashaninka che qui rifugiandosi resistettero ai conquistatori spagnoli. Così l’Indio di Perlotto è il connazionale Bruno, un veneto che negli anni 70, deluso dalla vita e sopraffatto dal dolore per la morte del figlio, sceglie l’Amazzonia come un surrogato del suicidio. E qui invece rinasce nel riscatto di ideare e condurre una rivolta che unisca tutte le tribù contro soprusi e sfruttamento e dare un senso alla propria vita. Naturalmente la sua rimarrà un’utopia consumata nell’attesa di un ordine dai grandi capi della Rivoluzione che non arriverà mai.
È interessante confrontare il tenore delle utopie innanzi sintetizzate con l’esperienza narrata da un cronista e testimone diretto degli avvenimenti accaduti durante la spedizione condotta di Pedro de Orsùa nel 1560 alla ricerca di El Dorado, tale Francisco Vàsquez. Una cronistoria scritta come denuncia penale a carico di Lope de Aguirre e di altri capitani di ventura che si ribellarono al loro governatore e discesero il Rio delle Amazzoni fino alla foce per poi approdare all’Isola Margherita.
Questa cronistoria racconta la visionaria follia di Lope de Aguirre “il crudele tiranno, mente e inventore di nefandezze” che, proprio nel subire l’isolamento nella foresta nella quale la spedizione si è perduta senza alcuna via d’uscita, comincia a concepire l’idea di sfuggire al giudizio dei tribunali e alla vendetta del sovrano costituendo con i suoi correi un nuovo stato nei territori inesplorati da strappare con la forza agli indio.
In tutta la narrazione di Francisco Vasquez indio e foresta sono descritti come il luogo della perdizione nella quale possono trovare protezione le malvagità di assassini e briganti senza scrupoli, il luogo che per sua stessa natura copre le scelleratezze di chi non è timorato di Dio; al pari degli indio, appunto. L’Amazzonia è di per sé amorale. Non vi si applicano giudizi secondo i nostri comuni valori di bene e male, di giusto e ingiusto. Non è una terra in cui cercare Dio, in altre parole. Quel Dio che noi pretendiamo definire secondo i canoni dei benpensanti e di coloro che dettano le regole della morale. La sua esistenza è nell’ordine delle cose naturali ed è per questo fragile in sommo grado, alla mercé di chiunque si erga giudice, o di chi millanti la conoscenza della verità.
Per loro natura gli indio hanno scarsa resistenza e nutrono avversione al lavoro ripetitivo e pesante al quale non sono abituati e non sopportano, cosa ancor più grave, la perdita della libertà. Portoghesi e spagnoli si adoperarono in ogni modo e con ogni mezzo per farne schiavi al loro servizio con la pervicace intenzione di sottrarre terre da sfruttare, in cerca di oro. Alle frecce avvelenate col curaro contrapponevano fucili e pistole, oltre che spade e alabarde. Si infiltrarono nei clan ricorrendo alla subdola arma del meticciato con le alleanze stipulate tramite sposalizi tra bianchi e indio. In tal modo convertirono e addomesticarono, infiacchendo lo spirito animista e libertario, naturalisticamente e spontaneamente anarchico di questi popoli.
Nell’unico territorio ancora franco dall’invasione ispanica, nella “frontera viva” del Gran Pajonal si insediano però le piccole comunità di francescani a dar man forte agli indio Ashaninka. E ciò che veniva tenuto fuori dalla porta, per così dire, rientrava dalla finestra. Le parole dei francescani sono più pericolose e letali delle pallottole, perché espresse anche in buona fede e nella convinzione di operare nel nome di Dio. Solo che quel Dio nulla c’entra e ha a che fare con l’Amazzonia. Ed è per questo che nel 1737 un tal indio di nome Ignacio Torote ammazza il padre francescano Manuel Bajo dando inizio a una prima rivolta, perché: “voi frati ci state ammazzando ogni giorno coi vostri sermoni e il catechismo, rubando la nostra libertà!”.
A questa rivolta seguirà quella di Atahualpa che si compirà in una carneficina e la completa sottomissione degli indios.