Chiamano Collpa un luogo nel fitto della selva, a qualche ora di cammino dal campo. Dice Hector che là vi si possono avvistare gli animali più facilmente perché il terreno è ricco di sali minerali di cui uccelli e mammiferi vanno ghiotti.
La traccia di sentiero che infiliamo tosto si fa fangosa, più spesso scompare in un acquitrino di foglie e rami marcescenti e imputriditi dove s’intrecciano grovigli di liane, infiorescenze evanescenti, licheni e funghi dai cromatismi inquietanti.
Ben presto mi scopro fradicio di sudore e umidità. E incerto sulle gambe, nel costante timore di scivolare in questo suolo infido dove affondano le mie impronte pesanti e goffe. Sebbene a piedi nudi, gli indios avanzano invece sicuri e silenziosi. Sempre vigili ad ogni fruscio di fogliame, balenare di ombre, richiamo. Talvolta si arrestano sul ciglio di questo muro vegetale e additano qualcosa che non vedo, ascoltano qualcosa che non odo. Sono cieco e sordo nella caparbietà di decifrare l’indecifrabile geroglifico di fogliame, chiaroscuri e assonanze. Alla mia stizzita apprensione i Matsés sorridono condiscendenti e vanno oltre, a fare strada.
La selva è disarmante, struggente, fascinosa. Ovunque il mio sguardo s’infrange contro questo limite verde e multiforme, dalle sfumature infinite. Un caleidoscopio di cromatismi, che vanno dal marrone ruggine dei tronchi ai colori intriganti del sottobosco, s’arrampica ovunque a cercare luce in un anelito che s’ingegna nelle più bizzarre forme a fuggire l’oscurità. Così rampicanti e liane s’innalzano serpeggianti, e s’aggrappano pensili epifite in grovigli che possono perfino svilupparsi per 400 metri di lunghezza. Più spesso hanno forme sinuose che sembrano seguire il segreto ritmo di una danza sensuale e muta.
Appaiono del tutto simili, ad occhi profani, ma ecco che una coppia di liane contengono acque diverse, l’una amara e velenosa, l’altra dolce e potabile, come mi mostra Denis spezzandole con un colpo di machete. Subito zampilla il liquido buono, come una spremuta a riempirmi la bocca.
A volte, in alto, dove arriva la luce, si muovono creature silenziose e senza peso. Le scimmie ragno volano leggiadre in acrobazie sospese sopra le nostre teste da un albero all’altro, di ramo in ramo. Sono ombre che subito disappaiano al nostro cercare con gli occhi tra la ragnatela fitta di foglie e ramificazioni e lo stridio allarmato degli individui adulti. È tutto molto frustrante, e un senso di inadeguatezza mi cresce a poco a poco nell’animo, nella consapevolezza chiara di un totale straniamento a questa realtà inafferrabile. Al campo, un temporale breve ma intenso ha intriso d’acqua il terreno. Sono stanco, a pezzi, senza alcuna prospettiva di un giaciglio asciutto e confortevole.
Definire i contorni, scrutare nel buio, continuare ad inseguire con la mente ciò che l’oscurità protegge. Perché solo il pensiero e l’immaginazione definiscono questa volontà laddove i sensi sono intorpiditi, impotenti. Avanziamo con la canoa tra i riflessi silenti di stelle, la prua a separare il gorgoglio della corrente, le pagaie a risvegliare l’insondabile profondità. Se alzo gli occhi il cielo è un precipizio di stelle che dà la vertigine. È l’unico spazio libero ritagliato tra le ombrose chiome degli alberi. In basso, ammiccano in lampi intermittenti le lucciole come un segnale a condurci chissà dove.
Denis a prua e Armando a poppa pilotano la canoa, mentre Hector di tanto in tanto punta il fascio di luce della lampada a pelo dell’acqua. È allora che alcuni brillii tradiscono la presenza di alligatori e caimani. Sorpresi si paralizzano nell’attesa, gli occhi vitrei come catarifrangenti, mentre altri tosto s’immergono. Eppure, li ricordo molto più numerosi al tempo dei miei primi viaggi in Amazzonia. Sono schivi, sospettosi, impauriti. Oggi sono tutelati, entro i confine della Riserva dei Matsés, ma ne ho visti di esemplari stecchiti in bella mostra sui banchi al mercato di Belén. Carne e pelle sono ricercati. La caccia indiscriminata li ha infiacchiti. È infatti quasi un gioco da ragazzi arpionarli con un colpo ben assestato di fiocina quando sono paralizzati dalla luce della lampada. Hector me lo dimostra, afferrando un piccolo alligatore, le mani a stringergli il collo sollevandolo dall’acqua. Quello si dimena con la coda, mentre Hector lo espone al fuoco incrociato dei flash delle nostre macchine fotografiche. Dopo il nostro accanimento implacabile, liberiamo la vittima sacrificale che ancora intontita si lascia trasportare dalla corrente.
Una notte magica per me, un incubo infernale per quel povero animale.