Ma cosa è cambiato, e come, nella vita dei Matses da quel balzo nella Storia e nel Progresso dopo il primo contatto coi missionari?
La condizione famigliare, in primo luogo.
L’indurre gli indios ad abbandonare la promiscuità di una vita comunitaria, in una sola grande maloca, in favore di singole abitazioni per nucleo famigliare ha portato a una frammentazione di fatto nella tribù. Non sembrano dispiacersene a dire il vero, a parte Antonio che ricorda con nostalgia i vecchi tempi. Ma i villaggi sono agglomerati sfilacciati lungo le sponde del fiume. Delle vecchie maloca residuano pochi esemplari situati in prossimità delle chacra, i campi coltivati, e servono per lo più come ricoveri di fortuna. Hector mi dice che gli anziani si rifugiano in queste piccole maloca perché non gradiscono molto la vita nei moderni villaggi. Ma ho il sospetto che la maloca che stiamo visitando sia in realtà una messinscena per noi turisti. Ci vivono tre anziane. Una è la madre di Antonio. Ci accolgono con gran sorrisi, vestite di un solo gonnellino di stoffa, il volto tatuato con i disegni della tribù. La più anziana porta sottili bastoncini infilati nelle narici, com’è costume. Sono desiderose di farci vedere le loro abilità nell’intrecciare le foglie di palma. Poi ci accompagnano al campo per dissodare le radici di yucca e il barbasco, una pianta altamente tossica con la quale pescano nei torrenti.
Perché sembra tutto finto?
Nella maloca non hanno che poche suppellettili. Sono appese amache di liana intrecciata, di buona fattura e ben poco usurate. Hector ci dice che se ci piacciono possiamo anche comprarle. Non ci sono segni evidenti di vissuto. Tra i sostegni della copertura trovo infilate stuoie di raffia che dovrebbero usarsi a mo’ di desco e che invece appaiono così lucenti al tatto. Il sole rivela troppo, è impietoso.
Sono tristi tropici, appunto, come diceva Lévi Strauss.
La gerarchia di comando, in secondo luogo.
Mentre un tempo erano i guerrieri più feroci e temuti ad avere il potere effettivo sulla tribù, ora sono i giovani che hanno ricevuto una qualche istruzione a diventare i capi dei villaggi. Gli anziani non sono più consultati sulle decisioni importanti. La mediazione con il mondo “civilizzato” implica una conoscenza sempre più complessa e articolata per far fronte alle minacce che insidiano la sopravvivenza della tribù. I governanti si fanno vivi solo in occasione delle campagne elettorali, promettendo ciò che non possono né vogliono mantenere. E non è neppure detto che ciò che promettono possa essere un beneficio per i Matses. Anzi è spesso vero il contrario. Oggi come oggi le insidie più pericolose provengono dal miraggio di facili ricchezze con lo sfruttamento del sottosuolo. Il progetto di estrazione del petrolio ad opera di compagnie canadesi è una spada di Damocle che continua a pendere su tutto questo territorio.
I Matses si sono organizzati. Hanno una certa rilevanza, rappresentando una comunità stimata in circa trentamila anime divise tra Perù e Brasile. Savino è il plenipotenziario di questa comunità e la rappresenta a tutti gli effetti davanti agli organi istituzionali per tutto ciò che riguarda questo territorio. Savino ha poco più di vent’anni. È istruito e rilascia parecchie interviste sul problema dello sfruttamento del suolo. Le possiamo rivedere anche su you tube. Sostiene e promuove la lotta contro le compagnie petrolifere e le lusinghe del governo centrale che vorrebbe dare in concessione il territorio per la valorizzazione dell’ambiente e il benessere degli indios. Nemmeno mezzo secolo fa sarebbe stato impensabile che fosse un giovane ad occuparsi dell’intera comunità Matses. Savino è figlio di Roberto, il fratello maggiore di Armando e nipote di Dunù, il più temuto tra i guerrieri da sempre ostile a qualsiasi cedimento ai bianchi.
Mi mostrano una fotografia di questo Dunù, già anziano, mortificato dagli anni e dal completo che indossa, con tanto di cappello, afflosciato su di un corpo che fatichi a immaginare, oggi, figlio della selvatichezza, agile, muscoloso, scattante ed ora più simile a un peone senza terra. La sua fama si era costruita sul numero delle sue vittime e delle donne rapite alle tribù antagoniste come di quelle razziate alle isolate comunità di meticci nelle vicinanze di Requena. Circolano parecchi aneddoti su questo Dunù che Armando e Denis ripetono per intrattenerci la sera prima di dormire. Hector si compiace dei loro racconti ben attento al nostro indice di gradimento. Per lui è molto importante, sembra inorgoglirlo quasi fosse un valore aggiunto al suo pacchetto di servizi e durante il viaggio non perderà occasione di richiamare la nostra attenzione su questa aneddotica, parte integrante della cultura Matses. Loro si mostrano abbastanza riluttanti, come sempre inclini a una certa riservatezza nei confronti dei forestieri. E non saprei dire fino a che punto questo raccontare il loro passato prossimo, anche ai fini di un innocente intrattenimento, favorisca la conservazione della memoria storica di una tribù che potremmo anche dirsi estinta con riguardo al sentimento suscitato all’ascolto come davanti alle sbiadite immagini che ritraggono la famiglia di Dunù al completo negli anni Settanta.
La stanzialità, in terzo luogo.
Come tutti i popoli amazzonici anche i Matses potevano considerarsi nomadi, migrando periodicamente in nuovi territori di caccia e alla ricerca di una nuova porzione di foresta da disboscare per dissodare il terreno e preparalo alle piantagioni. La maloca era un’abitazione che si costruiva in tempi relativamente brevi e quindi facilmente abbandonabile. Oggi i villaggi sono costruiti con altri criteri, dipendendo dal facile approdo per le canoe a motore e per rispondere a esigenze un tempo inimmaginabili. Nei più grandi villaggi di Rebuyaco e Buen Perù, ad esempio, esiste un gruppo elettrogeno che fornisce energia elettrica e illuminazione per alcune ore. Così i campi si trovano a non più di un’ora di cammino e quando diventano improduttivi, il terreno da disboscare viene cercato un poco più in là.
L’energia porta il confort della luce nelle capanne. Chi se lo può permettere possiede anche un televisore o il pc. Armando e Denis ne possiedono uno. Del resto Denis è in tutto e per tutto figlio di questa epoca informatica, dimostrando una certa abilità nell’uso dei vari dispositivi, incluso l’inseparabile telefonino. Anche se qui non c’è campo di ricezione, sono in molti i ragazzi a possederlo, facendone sfoggio insieme alle magliette sportive e alle scarpe Nike da indossare alla prima occasione. Molti nemmeno si tatuano più il volto, abbandonando così ogni segno distintivo della loro tribù. Li vedo, la sera, uscire a gruppetti con le magliette dei loro idoli di basket e calcio, in tutto e per tutto indistinguibili dagli altri milioni di ragazzi della nuova America Latina. La radicazione della tribù induce all’appartenenza ad una comunità più vasta, ben oltre i ristretti e angusti confini di questa selvatichezza. Non so quanti di loro vorrebbero andarsene da qui, se soltanto potessero. Quanti sono in attesa di un’opportunità per farlo. E come non comprenderlo!
Me ne sto seduto sull’alta sponda che domina l’ansa del fiume. È l’imbrunire. Una donna ha terminato il bucato e con la sua bambina risale la china fangosa, il catino bilanciato in testa con i panni puliti e una tanica d’acqua per le mani. La bambina porta anche lei una grande ciotola con alcuni indumenti. Non mi sfugge che per le donne la modernità ha portato a nuove schiavitù, dovendosi occupare di incombenze che prima non esistevano come quella del bucato, appunto. Senza i benefici di acquedotti e di fognature, ben più essenziali di televisori e computer. La loro vita, paradossalmente, è forse più dura ora di un tempo, non traendo benefici concreti dalla modernizzazione che è e rimane superficiale, posticcia, espressione del superfluo. E qui mi chiedo che ne sarà di questo scorcio, nel chiarore che ancora persiste sopra la cortina degli alberi, mentre alle spalle il villaggio si va illuminando qua e là, se e quando l’evoluzione delle cose porterà a più profondi e invasivi mutamenti. Nella penombra percepisco un tramestio di acque e uno sbuffo sottile, quando le rane cominciano imperturbabili il loro richiamo ossessivo. E’ un momento perfetto, nel fragile e impercettibile equilibrio dell’armonia. E penso che la donna si è appena salvata dalle tentazioni del bufeo che laggiù si agita perlustrando le sponde del fiume in cerca di una nuova avventura amorosa.