IsoleBianche

XI – San Juan – Il mondo finisce in una selva di cani.

Antonio ricorda molto bene il primo incontro della sua tribù con i missionari. All’epoca, nel 1969, appunto, doveva avere più o meno nove, dieci anni. Lo ricorda come io ricordo altrettanto bene quella diretta televisiva da Cape Canaveral, trasmessa in Italia a notte fonda, dove un ingessato Tito Stagno raccontava il primo sbarco dell’Uomo sulla Luna: “un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo dell’Umanità“. Era luglio e mi trovavo al mare, a San Benedetto del Tronto per le vacanze estive.

Mentre Antonio racconta, rifletto su questa singolare coincidenza. Il mondo civilizzato compiva un balzo nel Progresso, mentre la tribù dei Matses, finora ignota, entrava nella Storia. Non so dire se questo balzo dell’Umanità, così come per i Matses, sia stato vero Progresso. Certo è che per tutta l’Umanità questi due eventi, l’uno enfatizzato dal potere della televisione, l’altro vissuto nella ristretta cerchia di una comunicazione ancora primitiva, hanno significato un cambiamento inimmaginabile nel modo di vivere e di pensare. Ed è altrettanto sicuro che per i Matses abbia significato un mutamento così radicale e di tale portata da sconvolgere per sempre la loro vita.

La capanna dove siamo alloggiati è illuminata dalla flebile luce di qualche candela incollata con la cera sul pavimento di legno. Abbiamo appena terminato di cenare un ottimo stufato di aguti con pomodori e patate. Io, l’amico Ugo, Hector e i nostri compagni siamo accoccolati nelle nostre amache appese tra una parete e l’altra in un cerchio di ombra e di luce. Antonio si distende su alcuni sacchi di juta come in un triclinio. Il registratore è acceso ai suoi piedi. Fuori la notte è perfetta, una stellata di cielo limpido dove a oriente s’indovina il chiarore della luna nascente.

Sì, lo ricordo. Come se fosse ora. Erano giorni che uno strano uccello di metallo, mai veduto prima, sorvolava il villaggio,” dice Antonio. “Faceva un gran fracasso. Era spaventevole. Tutti noi eravamo terrorizzati. I guerrieri più coraggiosi cercavano di colpirlo. Con le frecce, sapete. Ma non ci riuscivano. Quello si alzava, si abbassava. Poi volava via. Ma la cosa più sconcertante era che quell’animale, che non era animale, quel prodigio sconosciuto parlava la nostra lingua. E ci diceva di stare tranquilli, di non avere paura. Lo ripeteva di continuo. La notte la tribù si divideva in animate discussioni per cercare di darci una spiegazione di quel fenomeno. Se dar credito a quella voce che parlava la nostra lingua. Alcuni guerrieri erano inferociti dal terrore e animosi di affrontare quel pericolo e ucciderlo, finché un giorno, l’uccello si abbassò facendo cadere un cesto colmo di cibarie, machete, specchi, filo. La voce, inoltre, ci invitava ad andare al Rio Yaquerana, dove avremmo trovato molti altri doni. Quella notte le discussioni furono ancora più animate. Ma alla fine la curiosità prevalse. Fu deciso che un gruppo ristretto di sei uomini, armati di tutto punto, sarebbe andato in avanscoperta al fiume e sarebbe poi ritornato per riferire. Nell’attesa, noi avremmo abbandonato il villaggio per rifugiarci nel fitto della selva. Furono dunque quei sei guerrieri a stabilire il primo contatto con l’uomo bianco. Già, le cose sono andate proprio così.”

A dire il vero gli aerei non dovevano essere una diavoleria del tutto ignota. E questo perché già da un pezzo i Matses avevano sperimentato, loro malgrado, la malvagità di questi prodigi. Dal momento che erano soliti fare scorrerie nella cittadina di Requena sul Rio Ucayali per rapire le donne peruviane, com’era loro costumanza, l’esercito aveva cominciato a perseguitarli. Tuttavia le incursioni nella foresta si erano rivelate del tutto infruttuose perché i Matses abbandonavano i villaggi prima dell’arrivo dei militari. Nel 1964 era intervenuta in soccorso anche l’aviazione americana che da Panama aveva inviato alcuni elicotteri da guerra. E con quella erano cominciati pesanti bombardamenti al napalm nel tentativo di annientare completamente la tribù. Così gli indios furono costretti ad allontanarsi dai fiumi e a nascondersi sempre più nella foresta, sparpagliandosi in piccoli nuclei. In questi spostamenti una delle donne peruviane rapite riuscì a fuggire e a ritornare a Requena. Fu così che i missionari la contattarono e appresero da lei la lingua dei Matses.

Quando i guerrieri in avanscoperta fecero ritorno coi doni, continua Antonio, furono accolti come eroi. Riferirono di essersi imbattuti in un piccolo accampamento di una sola tenda. Là c’erano due donne che li invitavano a guadare il fiume e ad avvicinarsi. Erano le due missionarie, di cui avevo letto, le quali avevano preparato da molto tempo quel primo contatto, imparando la lingua Matses. In seguito la tribù accolse le due donne in amicizia e altri missionari continuarono nell’opera di civilizzazione ed evangelizzazione preservando la lingua degli indios che ancora oggi viene insegnata a scuola assieme al castigliano.

I Matses non hanno mai avuto particolari credenze o una visione religiosa della vita. Mi è venuto spontaneo chiederlo ad Antonio, parlando appunto del loro rapporto con i missionari. Ho ancora nel cuore quelle voci idilliache cantare salmi nella chiesa, quando siamo sbarcati a San Juan.

A differenza degli Yanomami o degli Jìvaros, ad esempio, i Matses non hanno sviluppato una cosmogonia di tale complessità. Le loro risposte ai misteri della vita sono sempre state piuttosto pragmatiche. Questo è quello che capisco da ciò che mi racconta Antonio riguardo al loro sistema di vita. Praticavano l’endocannibalismo, rituale connesso con la fertilità della terra. E credevano, come ancora oggi tendono a credere, che le anime dei defunti trasmigrassero in certi animali. Con l’evangelizzazione cominciarono a seppellire i loro morti semplicemente avvolti in un sudario, ma oggi la sepoltura avviene nei cimiteri con la salma chiusa in una cassa. E’ ciò che infine hanno imposto i missionari. Non hanno mai creduto in un Dio onnipotente e creatore del mondo. Semplicemente, non si sono mai posti certe domande.

Antonio si mostra piuttosto perplesso al riguardo. Mi confessa di impegnarsi nella lettura della Bibbia, pur faticando a dover credere a ciò che non vede. Questo Dio, in fondo, chi è e dove sta? “E voi, ci credete voi? Ditemi, spiegatemi!”

Mi dice di avere sei figli. Alcuni sono emigrati a Lima. Uno studia informatica. Talvolta riesce a parlarci con l’aiuto della “macchina”. Vede suo figlio sullo schermo. Gli sembra che non sia felice. La vita in città è molto difficoltosa. Ha sempre bisogno di soldi per pagarsi da vivere, la luce, l’acqua, l’automobile, la casa.

Che bisogno aveva di andarsene? Qui c’è la luce, c’è l’acqua, abbiamo una casa. Basta andare nella foresta a cacciare o nel fiume a pescare… Non lo comprendo… Sì, vedo il suo volto su quello schermo di vetro, ma mi chiedo come possa essere tutto ciò! Gli uomini hanno inventato tutto questo e mio figlio è in quello schermo. E non è felice!”

Le sue parole cadono nel silenzio della notte. Sono domande sospese ancora in cerca di una qualche risposta. Potrebbero anche essere le mie medesime domande. Le domande di noi tutti, forse. In un certo senso, io e i miei amici siamo giunti fin qui volando sulle ali del Progresso che ha impiegato millenni per portarci fin qui. Alle origini del tutto. Alle origini di ogni domanda.

A mano a mano che Antonio parla mi scopro di nuovo bambino davanti ai misteri della vita e dell’Universo. Al perché delle cose. A quando mio padre cercava di spiegarmi il sistema solare e di come la Terra fosse una palla che gira attorno al sole, tenendo una candela in una mano e nell’altra una mela. Per spiegarmi il giorno e la notte. E l’alternarsi delle stagioni. I Matses sono come bambini che hanno dovuto crescere piuttosto in fretta, balzando dall’età della pietra all’era dello spazio. Una condizione più comune di quanto si possa credere. Penso ai popoli dell’Africa, ai popoli della Nuova Guinea che videro l’uomo bianco per la prima volta negli anni trenta del Novecento per ritrovarsi poi coinvolti nella guerra del Pacifico tra americani e giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Che cosa può significare per loro tutto questo? Come possono accettarlo veramente, farselo proprio? E così in fretta? Un anziano della Papua New Guinea, ci raccontava della prima volta che vide degli aerei. Erano due caccia giapponesi a volo radente sul fiume Sepik. Il villaggio di Ambuti fu mitragliato e incendiato. I pilastri della vecchia haustambaran (la casa degli spiriti) si ergono ancora nel luogo dove sorgeva prima della sua distruzione. Il loro futuro era appena cominciato.

Antonio fatica a darsi una ragione della sfericità della terra. E perché gli uomini a testa in giù nell’altro emisfero non cadano nel vuoto. E che lo spazio, questo Universo sia infinito. Perché tutto deve pur avere un limite, così come la terra, questa terra finirà bene da qualche parte.

L’infinito è inconcepibile!

“E dove pensi che abbia fine la terra?”, gli chiedo allora per comprendere le sue titubanze.

“Bién, por ùltimo, yo creo que el mundo termine en una selva de perros!”, risponde infine in una grassa risata.

 

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